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Questo articolo è stato pubblicato il 19 luglio 2012 alle ore 08:06.

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C'è qualcosa di déjà vu nel balletto che divide l'Atlantico, con il segretario al Tesoro americano Tim Geithner deciso a difendere se stesso e il governatore della Banca d'Inghilterra Mervyn King impegnato a liquidare con un'alzata di spalle metaforica le accuse degli Stati Uniti sullo scandalo del tasso interbancario londinese Libor, riferimento per contratti da 350mila miliardi di dollari.

Il caso Libor riporta alla mente le infuocate telefonate sulla vicenda Lehman fra l'ex segretario al Tesoro Usa Hank Poulson e l'ex cancelliere britannico Alistair Darling. Anche allora, come oggi, la "very special relationship" anglo-americana non seppe resistere a tensioni pubbliche esplodendo in privati scambi di reciproche accuse. Era l'autunno del 2008, pieno credit crunch e in quei giorni, scopriamo ora, l'allegro fixing del Libor impazzava. Oggi centinaia di e-mail svelano comportamenti criminali di traders accecati dall'avidità, regolatori indecisi sul lato americano e regolatori del tutto paralizzati su quello britannico, mentre resiste il sospetto che non di incompetenza si sia trattato, ma di correità.

Deliberata mossa – della Banca d'Inghilterra, secondo la tesi del management di Barclays – per aggiustare la silhouette finanziaria delle banche. Lo capiremo quando un'inchiesta adeguata sarà stata avviata (non c'è ancora) per chiarire i termini di un caso che ha visto Ben Bernanke prima e Tim Geithner poi chiamare gli Usa fuori dai guai maturati a Londra.
La finanza anglosassone si divide di nuovo, ma il mondo questa volta non ha la pazienza di assistere a un balletto che si consuma sulla pelle di tutti. Uno scandalo di queste proporzioni crea una drammatica linea di continuità con la crisi del 2008-2009, si allaccia al rosario infinito di deliberati azzardi che narrano le gesta dei bankers nella City e a Wall Street e, in ultima analisi, contribuisce a perpetuare quel credit crunch che zavorra l'economia reale.

Una volta di più, una volta ancora, pratiche illecite o irresponsabili di economie afflitte da elevati tassi di finanza, aumentano l'incertezza e frenano la ripresa. Spalancando, oltretutto, indefinibili scenari di class action multimiliardarie se sarà provato che l'aggiustamento del Libor ha creato danni diretti e quantificabili. L'impresa è complessa nonostante l'arcaicità del meccanismo, ma non impossibile.
Per tutto questo è apparso francamente incredibile, più che sorprendente, sentire un governatore stimato come sir Mervyn King confessare di aver scoperto solo due settimane fa la gravità di un caso che era commentato sui giornali da mesi. Inspiegabili gli imbarazzi messi in scena anche dal. vertice della Fsa, la Consob inglese. Stiamo davvero assistendo a un rigurgito dell'approccio morbido alla regolamentazione che Londra ci aveva promesso di aver archiviato insieme con tutti i guai di un banking estremo?

Non c'è, per ora, una risposta, ma l'accavallarsi di mille domande a cui dovranno essere date spiegazioni, nella consapevolezza che l'alternativa per i responsabili è fra l'inadeguatezza e la complicità. E dovranno essere date subito. Quanto è accaduto non è un fatto interno britannico o americano, non è la follia di un trader o di una banca, ma riguarda un tasso di riferimento planetario, coinvolge almeno sette istituti di credito in diversi continenti, pertanto, in un mondo globalizzato, ha conseguenze potenziali su tutti noi.
Ha ragione il governatore della banca centrale francese Christian Noyer nel dirsi «sotto choc per comportamenti tanto delittuosi». Parole seguite dall'inevitabile richiesta parigina di «regole ferree» che Londra, immaginiamo, leggerà come indebita interferenza sull'industria finanziaria, il "purosangue nazionale". E, forse, Londra avrà ragione nell'attribuire un'intonazione del genere ai commenti di monsieur Noyer, ma oggi, nel pieno del caso Libor, quando anche Wall Street l'abbandona, ha armi spuntate per alzare la voce in difesa della City e di se stessa.

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