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Questo articolo è stato pubblicato il 02 settembre 2012 alle ore 15:09.
L'ultima modifica è del 02 settembre 2012 alle ore 15:15.

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Bando, allora, alle ubbie federaliste, alle visioni che non risolvono i problemi immediati e, in nomine Draghi, immergiamoci a testa bassa nelle cose che già stiamo facendo, alla maniera di Gurdulù, il mitico personaggio del «Cavaliere inesistente» di Calvino! Se è questo il succo che ricaviamo dall'articolo pubblicato questa settimana su Die Zeit da Mario Draghi, temo che andiamo ben oltre ciò che è giusto e utile ricavarne.

È vero, nell'articolo ci sono, sul tema dell'unione politica, due passaggi che colpiscono: il primo è che dobbiamo sottrarci ad una rigida scelta binaria fra il ritorno al passato e gli Stati Uniti d'Europa. Il secondo è che non è il caso di mettere l'asticella troppo alta ed è meglio perciò lavorare su obiettivi più modesti. È una critica a chi, come me, è venuto predicando la necessità degli Stati Uniti d'Europa? Forse, ma se leggo i due passaggi nel discorso complessivo di Draghi e penso alle sue preoccupazioni, arrivo io stesso a concludere che nei suoi panni proporrei più o meno le stesse priorità.

La prima cosa è mettersi, appunto, nei suoi panni. È il presidente della Banca Centrale Europea, è convinto che l'assetto istituzionale a cui l'euro fu affidato all'origine è del tutto inadeguato e che i dubbi e il nervosismo dei mercati davanti alla parzialità, alle lentezze e alle reticenze del processo con il quale a pezzi e a bocconi lo si sta rafforzando, possono esplodere da un momento all'altro. E qui viene la sua preoccupazione più forte, vale a dire che la Germania, dove allignano le reticenze maggiori, faccia valere l'unione politica come una necessità pregiudiziale per non andare avanti neppure sulle cose per le quali è invece sin da ora non solo possibile, ma urgente farlo.

Ebbene, Mario Draghi ha perfettamente ragione. Se vogliamo salvare la baracca, ora e non fra un anno, dobbiamo dotarci di un fondo a livello europeo per gestire gli eventuali fallimenti delle banche, dobbiamo rafforzare la sorveglianza sui bilanci nazionali e dobbiamo lasciare che la Bce, pur nei limiti del suo mandato, intervenga quanto serve per garantire la stabilità dell'euro.

Si deve però, per consentire queste cose, fare prima l'unione politica? Assolutamente no, sono tutte più che compatibili con gli assetti esistenti ed era perciò più che opportuno dirlo ai tedeschi con la chiarezza che Draghi ha usato.

Ma negare che l'unione politica possa essere un alibi per stare fermi in attesa che arrivi, non può significare negare la rilevanza del tema e negare che le forze politiche fanno bene ad occuparsene davanti agli umori che sempre più percorrono le opinioni pubbliche dei nostri paesi. È un fatto che in più paesi dell'Eurozona, a partire dai due paesi maggiori, Francia e Germania, si è preso a parlare addirittura di referendum sulla gestione futura dell'euro. E in particolare l'Spd tedesca ha annunciato che, in caso di vittoria, organizzerà un referendum in Germania per modificare la stessa costituzione interna, in modo da autorizzare rigide e severe politiche di bilancio dettate a livello europeo e, con esse, la mutualizzazione dei debiti nazionali.

C'è in tale proposito la consapevolezza che decisioni sempre più rilevanti per la vita dei cittadini, come quelle che si adottano nelle sedi europee, diventano insostenibili se non corroborate con il consenso popolare e la legittimazione democratica. Quando si parla di unione politica a questo comunque ci si riferisce e, piaccia o non piaccia, è una prospettiva ineludibile, giacché eludendola si rischia ormai la rivolta contro l'Europa. Ma - ed è questo il punto sul quale da tempo vado insistendo - la rivolta non la si rischia con la stessa Europa prefigurata dal referendum dell'Spd, un'Europa che continua ad ancorare l'euro ai bilanci dei singoli Stati e che per questo è costretta a dettare dal centro regole sempre più vincolanti per tutti e a prefigurare un unico ministro finanziario europeo che decide non sul bilancio europeo, ma su quelli di tutti gli stati dell'euro?

Non credo di essere il solo a pensarlo. Ho appena letto la nota di Katinka Baysch, vice-direttore del Centre for European Reform di Londra, che il 29 agosto segnala sul sito dello stesso Cer il duplice rischio che l'Europa dell'Spd appaia ai tedeschi la "transfer union" che essi non accettano e agli europei del Sud, pur gratificati dalla mutualizzazione dei debiti, la fonte di vincoli interni che espropriano loro e i loro parlamenti.

E allora? Allora, come ha scritto giustamente Draghi, dall'unione politica non c'è ragione di partire, ma ad essa non si potrà non arrivare (e a dirlo è quel «Rapporto del Presidente» presentato in giugno da Herman Van Rumpuy, anche a nome dello stesso Draghi). La vera questione è intendersi sull'unione politica che vogliamo costruire, se quella della mutualizzazione dei vincoli e dei debiti, destinata al generalizzato ripudio popolare, o quella che fa «il salto di binario» verso un ben più accettabile assetto di tipo federale.

Mi si fanno svariate obiezioni da parte di coloro che non vogliono essere distolti dai lavori in corso. Mi si dice che un passaggio del genere non lo si fa con un "salto", come dimostra la gradualità con la quale si sono consolidati gli stati federali più classici. E io sono d'accordo, lo so bene che Washington accentrò compiutamente l'emissione di moneta solo dopo la guerra civile del 1861 e che la Federal Reserve fu creata nel 1913. Ma il "salto" verso la Federazione, che aveva precostituito un solido fondamento a tutto questo, era stato fatto oltre un secolo prima e paradossalmente, se lo facessimo noi (in modo certo non eguale), avremmo già alcuni degli strumenti di cui gli americani si sono dotati così tardi.

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