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Questo articolo è stato pubblicato il 15 settembre 2012 alle ore 10:50.

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La decisione del Giappone di chiudere, nel lungo termine, le sue 50 centrali nucleari era attesa e segue quelle simili di Germania, per 17 impianti, e Svizzera, per 5 reattori. Non sarà in realtà così facile uscirne, per la complessità di un'industria che da tempo è nella sua fase matura, ma alla quale è difficile trovare alternative. Partì in maniera entusiasmante nel 1955, con la Conferenza di Ginevra per l'uso pacifico del nucleare, e ha conosciuto il massimo sviluppo a cavallo degli anni '80, dopo le crisi energetiche da petrolio.

Gli incidenti del 1979 di Three Mile Island e quello di Chernobyl del 1986, fermarono la crescita e il numero di centrali si stabilizzò intorno a 440 reattori. Attualmente il nucleare conta per il 13% della produzione mondiale di elettricità di oltre 21 mila miliardi di chilowattora, contro quasi il 70% delle fonti fossili, soprattutto carbone, mentre il grande idroelettrico pesa per il 14%, e le fonti rinnovabili nuove, l'eolico e il fotovoltaico non arrivano al 2%. La domanda di elettricità è la prima ragione che spinge sui consumi mondiali di energia ed è da qui che sta giungendo, attraverso il carbone, la maggiore spinta all'aumento delle emissioni dei gas serra, salite di 10 miliardi di tonnellate anno negli ultimi 20 anni a quasi 30 miliardi, quelle da energia, che contano per il 60% del totale. Il nucleare ha fallito: da che doveva essere una fonte inesauribile e pulita, non solo non ha evitato il balzo dei fossili, ma costituisce di per sè un problema.

La maggior parte dei 450 reattori esistenti al mondo è stata costruita oltre 30 anni fa e, al di là delle recenti decisioni, nei prossimi anni occorrerà gestirne lo smantellamento. Solo in Europa se ne contano già oltre 80 in fase di chiusura o di smantellamento. Il problema della bonifica degli impianti e della loro messa in sicurezza e poi quello della gestione delle scorie impongono tecnologie complesse con costi alti. Si stima che a livello mondiale nei prossimi 20 anni vi sia un mercato dell'ordine di oltre 800 miliardi di dollari relativo a bonifiche e smantellamento di centrali nucleari. È un mercato dove l'Italia è già presente, grazie al primato dovuto all'essere stato il primo Paese a uscire dal nucleare spegnendo i suoi reattori già nel 1986.

Le nostre quattro centrali nucleari sono sotto bonifica da parte di Sogin, con un investimento programmato, e già stanziato, oltre i 4 miliardi di euro. Il fatto che le centrali fossero tutte diverse e costruite quando, almeno per alcune, non ci si poneva il problema dello smantellamento, rende il processo più impegnativo, ma spinge l'Italia a dotarsi di competenze più solide. In questo business sono finiti molti di quegli ingegneri nucleari che la nostra grande scuola ha sempre sfornato e che, dopo la chiusura delle centrali, non sono finiti all'estero. Il problema centrale è quello del deposito permanente, dove destinare le scorie nucleari, non solo delle vecchie centrali, ma anche quelle medicali, i cui volumi, ora a volte dispersi negli scantinati degli ospedali, sono in continua crescita, grazie ai successi della medicina nucleare.

Si stima un investimento di oltre 2 miliardi di euro per il deposito e per un annesso polo tecnologico su cui sviluppare la ricerca sulla gestione sicura delle scorie. Il nucleare fino ad oggi ha fallito nel franare la crescita dei fossili, ma le rinnovabili nuove non potranno fare granché e non saliranno oltre il 5% del totale di produzione elettrica. Non si può pertanto rinunciare alla ricerca su un nucleare futuro che sia intrinsecamente sicuro. Il gigantesco mercato internazionale delle bonifiche, la crescita dei rifiuti medicali, l'urgenza di mettere in sicurezza le vecchie centrali e le relative scorie, ci obbligano nell'immediato a velocizzare gli iter autorizzativi per questo tipo di attività. Nel lungo termine, la speranza di evitare l'effetto serra, rimane anche affidato al nucleare, su cui dobbiamo continuare a fare ricerca. Il paese della fisica di Galilei e di Fermi non ne può stare fuori.

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