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Questo articolo è stato pubblicato il 16 settembre 2012 alle ore 14:00.

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Per un comune mortale che cerchi di capire le vicende dell'eurozona orientarsi è tutt'altro che facile. Prima sembrava che l'unica cosa che mancava per stare tranquilli era che Mario Draghi ottenesse dalla Banca centrale europea la decisione di intervenire con mezzi "illimitati" a sostegno dei Paesi virtuosi in linea con i loro programmi di risanamento.

Poi la decisione è arrivata, abbiamo tirato un gran respiro di sollievo, ma siccome gli interventi della Bce dovevano agganciarsi a quelli del fondo salva-Stati, occorreva il via libera al fondo stesso della Corte costituzionale tedesca. E su questo ci hanno tenuti per giorni col fiato sospeso. La Corte ha dato il via libera e a questo punto il comune mortale era autorizzato a pensare: allora finalmente è fatta, possiamo stare tranquilli.
E invece no. La Corte ha deciso mercoledì e già giovedì i giornali aprivano con grossi titoli: "Ora l'Europa non ha più alibi", oppure "Ora tocca alla politica". Ma come, sembrava che quella di Draghi, e poi la sentenza tedesca, fossero le mosse decisive, e ora si ricomincia daccapo? È una domanda comprensibile, com'è comprensibile il disappunto che la ispira. Ma a chi se la pone quei titoli dicono la verità e dicono che forse ci si era fatti troppo impressionare dalla enfatizzazione che c'è sempre nei mezzi di informazione, quando attraggono la nostra attenzione sul fatto che accadrà il giorno dopo e sul valore determinante che potrà avere nello sciogliere i nostri dilemmi.

La realtà è purtroppo un'altra e ci aiuta a capirlo pensare a chi vive sugli argini di un torrente in piena e teme di esserne travolto da un momento all'altro. Nell'immediato è indotto a vedere la sua salvezza in chi gli porta sacchi di sabbia per alzare quegli argini, che è di sicuro decisivo nell'evitare il disastro. Ma basta poco per capire che, se non scendono il livello e la forza dell'acqua, non ci sarà sabbia che tenga.
Ecco Draghi, con il via libera della Corte tedesca, è quello che ha rafforzato gli argini e, nella specificità del nostro caso, ha anche fatto capire, a chi agita l'acqua per accrescerne il volume, che di sabbia ce n'è abbastanza per resistere alle sue onde e quindi è inutile provarci. Ma non c'è solo questo e il livello dell'acqua va ridotto intervenendo, come suol dirsi, a monte. Per questo ha ragione chi dice che ora la palla torna alla politica.

È la politica che deve colmare in sede europea il divario sempre più ampio fra il livello di integrazione insito negli strumenti messi in campo sul terreno economico e finanziario e quello, ben più sfilacciato, che esiste sul piano politico-istituzionale. È un divario alla lunga insostenibile, per due chiarissime ragioni: la prima è che le decisioni che via via si dovranno adottare nell'uso di quegli strumenti, affidate all'attuale tessuto intergovernativo rischieranno di non avere la tempestività necessaria e di perdersi, come ha scritto Renaud Dehousse, nel «labirinto decisionale» che è tipico di tale tessuto. La seconda è il basso livello di legittimità democratica del metodo intergovernativo, che spinge a rimediare immettendo sempre più nel processo i parlamenti nazionali, con l'effetto di rendere il labirinto ancora più tortuoso. Occorre procedere verso l'unione politica e deve trattarsi di una unione di tipo federale, proprio per uscire da quel labirinto. Mi conforta che lo abbia detto la settimana scorsa il nostro presidente della Repubblica e che anche il presidente della Commissione di Bruxelles Barroso, nel suo discorso mercoledì al Parlamento di Strasburgo sullo stato dell'unione, abbia indicato la necessità di una «federazione di Stati nazionali». La formula è palesemente ambigua, ma comincia ad andare nella giusta direzione.

Tocca ancora alla politica domare la piena del torrente, riconducendo i debiti pubblici che la alimentano a livelli più accettabili. Non è una novità, ma è importante sottolinearla ora, a ridosso dell'impegno finalmente assunto dalla Bce di usare il bazooka tanto a lungo auspicato, proprio perché non ci si illuda che il bazooka può bastare da solo. I mercati infatti per un po' ne saranno impauriti, ma se la solvibilità di questo o quel Paese dovesse apparire in dubbio, capirebbero che la stessa Banca cesserebbe di usarlo.
Non basta però fermarsi qui, non basta che dalla politica sia ribadita la necessità di non allentare l'opera di risanamento finanziario ovvero, simmetricamente, quella di promuovere con pari impegno lo sviluppo perché per ridurre il peso del debito, si cominci con il far crescere il Pil. Messa così, la questione rischia infatti di evaporare in vuota retorica e di generare schieramenti fondati sulle parole d'ordine, non su quello che in concreto si propone e si fa. Lo ha scritto bene Pascal Lamy nella prolusione letta a Edimburgo il 29 giugno scorso quando gli fu conferita una laurea honoris causa: il dilemma fra austerità e crescita è assolutamente stupido e tutto dipende dalle misure che si adottano, giacché si può anche fare in modo che il dilemma sparisca.

Il punto è proprio questo. Ha ragione Mario Monti quando dice che le prime misure di austerità da lui adottate sotto la sferza dell'emergenza non potevano che averte un effetto recessivo. Ma ora, al riparo del bazooka, dobbiamo metterci in grado di adottare misure che, assicurando la nostra solvibilità futura, siano compatibili con quelle per la crescita e possibilmente la promuovano esse stesse. È su questo terreno soltanto, e non per la loro astratta appartenenza alla categoria dell'austerità o a quella della crescita, che le misure sono giuste o sbagliate.

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