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Questo articolo è stato pubblicato il 15 novembre 2012 alle ore 10:29.
L'ultima modifica è del 15 novembre 2012 alle ore 07:34.

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Se l'Italia e la Spagna potranno presentare avanzi di bilancio e un rapporto debito/Pil in calo, i mercati finanziari ridurranno i tassi di interesse sui loro buoni del Tesoro senza necessità di ricorrere ai ventilati acquisti della Bce. In questo modo verrà meno il rischio che Francoforte possa iniziare a comprare titoli di Stato sulla base di misure di spesa concordate, per poi essere costretta a reagire se i Governi non dovessero applicarle.

Nulla di tutto ciò basterebbe per salvare la Grecia o il Portogallo, dove il deficit è rispettivamente del 7,5 e del 5% del Pil. Ma se Italia e Spagna non corressero più il rischio di andare in default, o di abbandonare l'euro, la Germania e gli altri leader dell'Eurozona avrebbero margine di manovra per decidere se continuare a finanziare questi piccoli Stati o invitarli gentilmente a lasciare l'euro e tornare alle loro valute nazionali.
Inoltre, anche in questo scenario ottimistico, rimarrà il problema del deficit delle partite correnti di Italia, Spagna e altri Paesi della periferia dell'euro.

Le differenze fra Paesi dell'Eurozona quanto al ritmo di crescita di produttività e salari continueranno a originare disparità nella competitività internazionale, con conseguenti squilibri commerciali e delle partite correnti. La Germania in questo momento ha un surplus di circa 215 miliardi di dollari l'anno nel saldo con l'estero, mentre il resto della zona euro ha un deficit di circa 140 miliardi di dollari.

Italia, Spagna e Francia hanno un disavanzo nel saldo con l'estero pari a circa il 2% del Pil o più. Quando usciranno dalle loro recessioni congiunturali, i redditi aumenteranno, con conseguente incremento delle importazioni e ulteriore aggravamento del disavanzo con l'estero. Per finanziare questi deficit dovranno ricorrere a flussi di denaro in ingresso da altri Paesi.

Se Italia, Spagna e Francia non stessero nell'Eurozona potrebbero lasciar svalutare le loro monete: il tasso di cambio più debole favorirebbe le esportazioni e ridurrebbe le importazioni, eliminando il deficit. Inoltre, l'incremento delle esportazioni e la sostituzione delle importazioni con beni e servizi prodotti in patria rafforzerebbe le loro economie, riducendo il deficit di bilancio grazie all'incremento del gettito fiscale e al calo dei trasferimenti. E un'economia più forte aiuterebbe le banche nazionali riducendo l'ammontare potenziale di crediti in sofferenza e l'insolvenza sui mutui.

Ma naturalmente Italia, Spagna e Francia fanno parte dell'Eurozona, e non possono svalutare. Ecco perché penso che questi Paesi - e l'Eurozona più in generale - potrebbero trarre beneficio da una svalutazione dell'euro. Un euro più debole non li renderebbe più competitivi rispetto alla Germania e agli altri Paesi dell'Eurozona, ma accrescerebbe la loro competitività rispetto a tutti gli altri Paesi.

Se l'euro si svalutasse del 20-25%, arrivando vicino alla parità con il dollaro e indebolendosi in egual misura rispetto alle altre valute, il deficit delle partite correnti in Italia, Spagna e Francia si ridurrebbe e l'economia di questi Paesi si rafforzerebbe. Anche le esportazioni tedesche beneficerebbero di un indebolimento dell'euro, rafforzando la domanda economica complessiva in Germania.

Paradossalmente, l'offerta della Bce di acquistare titoli di Stato italiani e spagnoli ha aggravato gli squilibri esterni provocando una rivalutazione dell'euro. Forse è solo un effetto temporaneo e l'euro si svaluterà non appena i mercati finanziari si renderanno conto che serve un cambio più basso per ridurre il disavanzo delle partite correnti nei tre grandi Paesi latini dell'Eurozona. In caso contrario, la prossima grande sfida della Bce sarà trovare un modo per convincere l'euro a scendere.
(Traduzione di Fabio Galimberti)
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