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Questo articolo è stato pubblicato il 22 dicembre 2012 alle ore 07:57.
L'ultima modifica è del 22 dicembre 2012 alle ore 09:59.

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L'Europa accetta da ben oltre mezzo secolo molte “lezioni americane”. C'è dietro un'economia più elastica e possente. Un mercato ben regolato, dai tempi del primo Roosevelt, Theodore. Una finanza ben regolata, dai tempi di Franklin Roosevelt e fino agli anni 90, non certo dopo. Una ricerca imbattibile e una forza manifatturiera che fece per ben due volte dell'America, come si diceva, l'arsenale della libertà. Molto rimane, di tutto questo. Anzi, l'industria dopo anni di trascuratezza è in ripresa, si dice con qualche ottimismo di troppo. Molto non c'è più. Ora siamo a rischio di fiscal cliff, fra dieci giorni. Ed esiste un legame chiaro tra la situazione dei conti pubblici, il deficit commerciale, e l'insufficienza industriale, per un paese leader: il sistema spende più di quanto produce, e a debito. E produce a livello insufficiente anche perché Wall Street gli aveva detto che la finanza avrebbe garantito il tutto.

Il fiscal cliff, il salto fiscale di cui tanto si parla e che sembra a tratti ineluttabile, è il meccanismo estremo inserito un anno fa per aumentare le tasse e tagliare le spese in automatico, e avviare brutalmente il riallineamento fra entrate e uscite, cronicamente squilibrato. Il fiscal cliff sarebbe la resa della politica, la recessione assicurata, e una mina per i mercati finanziari, perché rivelerebbe l'impotenza dell'America. Restano in teoria pochi giorni e vedremo se Casa Bianca e Congresso riusciranno ad evitarlo. Probabilmente sì. Ma in uno psicodramma. Il paese delle “lezioni americane” non è più, comunque vada, la stessa cosa.

Sui temi della politica industriale la lezione americana ha tre volti: gloriosa e abbagliante per il passato, negativa e da non imitare per quanto fatto negli ultimi 20 anni e fino a ieri all'ombra degli eccessi finanziari, interessante e importante per quanto si sta muovendo oggi ma con risultati ancora incerti. Anche se si parla pur sempre del gigante mondiale dell'economia, e dell'industria, con 3.500 miliardi di investimenti diretti all'estero contro 2.300 di investimenti stranieri negli Usa, secondo il Bureau of Economic Analysis e la sua Survey.

Sulla portata dell' attuale ripresa industriale americana il dibattito è aperto, da quando nell'agosto 2011 un'analisi del Boston Consulting Group diceva che era incominciato il grande ritorno e che la Cina sarebbe diventata meno competitiva. Il dibattito elettorale, con il salvataggio dell'auto deciso dalla legge Tarp dell'ottobre 2008 e portato avanti con forza da Barack Obama, ha alimentato le speranze. Varie decisioni, alcune già elencate dal BCG altre prese dopo, sembrano confermare che gli investimenti industriali potrebbero presto muoversi. Per ora i dati della Fed raccolti nel trimestrale Flow of Funds alla tavola B.102, sulle società non finanziarie, non indicano spostamenti degni di nota negli investimenti fissi, software compreso. Non si capiscono i contorni dell'attuale rinascita industriale, vera o auspicata che sia, se non si ricorda che fra le cause, ancora irrisolte, del declino, c'è lo strapotere che ancora oggi una Wall Street convinta della propria capacità di generare vera ricchezza per l'intero sistema detiene a Washington. I fatti del 2007-2008 e successivi sviluppi dovrebbero averlo smentito, ma ormai è una bassa lotta di potere e non di idee. E si è visto, dal personale che si è scelto e dalle impunità che ha consentito e consente, con chi sta Barack Obama, retorica a parte. Con un crollo dell'occupazione industriale incominciato negli anni 80 e diventato verticale con il terzo millennio, gli Stati Uniti hanno oggi gli stessi addetti alle manifatture – 11,5 milioni - che hanno Germania Italia e Belgio messi insieme, cioè i due primi paesi industriali d'Europa, quanto ad occupazione, più un piccolo paese di antica tradizione. Ma la popolazione americana è doppia. Sul Pil i dati non sono molto diversi: l'industria manifatturiera vale oltre il 20% del Pil tedesco, il 16% di quello italiano e il 10% di quello americano. Certo, nella quota americana c'è molto più hi-tech che in Italia, questo conta, e certo è ardito confrontare due realtà così diverse. Tra il 2000 e il 2010 gli Stati Uniti hanno perso il 28,3% della manodopera manifatturiera dice il Bureau of Labor statistics mentre il calo in Germania è stato del 6% nel decennio e in Italia del 9% circa.

Con un approccio incominciato negli anni di Reagan ha trionfato la finanza a danno dell'industria. Robert Rubin, ministro del Tesoro di Clinton, maestro della squadra economica di Obama e uomo di Wall Street, trattava con la Cina e altri paesi fornitori cedendo sempre sul manifatturiero, e chiedendo in cambio spazio per la penetrazione finanziaria della grandi banche di Wall Street. Non erano i costi spingere l'industria fuori, poiché come documenta una recente corposa analisi della Brookings Institution i costi americani sono fra i più bassi, ormai, inferiori (i costi, non le paghe al netto) anche a quelli italiani. Era l'idea che di industria ne servisse meno, solo quella più strategica. Una delle maggiori riviste americane, tra quelle sopravissute al declino della stampa periodica, The Atlantic, dedica due servizi del numero di dicembre alla rinascita industriale. Uno basato essenzialmente sui programmi di General Electric, che è stata in passato forse il maggior esportatore di lavoro industriale d'America. L'altro su ciò che si muove in Cina a spinge o spingerà al rimpatrio di parte degli investimenti e del lavoro. Poi, per correttezza, la rivista mette a disposizione anche la lunga disamina che di queste tesi fa Alan Tonelson, uno dei più noti esperti e ricercatore presso l'U.S. Business and Industry Council, associazione che rappresenta oltre 2mila medie imprese.

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