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Questo articolo è stato pubblicato il 06 gennaio 2013 alle ore 14:12.
L'ultima modifica è del 06 gennaio 2013 alle ore 16:05.

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I commenti sull'accordo di Washington che ha impedito la caduta degli Stati Uniti nel temuto precipizio fiscale suggeriscono due analogie fra la loro situazione e la nostra, sulle quali vale la pena riflettere.
La prima è che i problemi sono in larga parte simili. La seconda è che sia loro che noi abbiamo davanti due mesi prima che si producano gli effetti negativi della mancata messa in cantiere delle relative soluzioni: loro, perché così stabilisce lo stesso accordo raggiunto, che ha dato appunto due mesi per rivedere le spese sulle quali scatterebbero altrimenti i tagli automatici già previsti per l'inizio dell'anno; noi, perché siamo in campagna elettorale e tutti capiscono, compresi i mercati, che è una fase di necessaria sospensione delle nuove azioni di governo. Per rendersi conto della somiglianza dei problemi (ben oltre la superficie a cui si ferma l'ultimo Economist) basta leggere la traccia di quelli americani fornita venerdì scorso da Fareed Zakaria sul Washington Post. Dopo aver definito l'accordo un cerotto che ha certo evitato un disastro immediato, ma ha lasciato immutate le prospettive tutt'altro che rosee per il futuro, Zakaria ricorda che il tasso di sviluppo degli Stati Uniti è venuto rallentando con gli anni, mentre cresce la disoccupazione e diminuisce la media dei salari.

Passando poi alle ragioni della ridotta competitività del Paese, inizia con la mole, che definisce mostruosa, della legislazione fiscale, 73mila pagine fra leggi e regolamenti. Prosegue con le attività economiche sottoposte ad autorizzazioni e vigilanza da parte di una pletora di autorità diverse, e fa l'esempio delle banche, vigilate da più agenzie federali e da cinquanta agenzie statali. Passa alle infrastrutture, sulle quali non si investe in innovazione come si dovrebbe, e fa il caso degli aeroporti, dove il passaggio ai computer di ultima generazione permetterebbe un traffico aereo più sicuro e veloce con un risparmio di 25 miliardi. Lamenta il deterioramento dello stesso capitale umano, dovuto al peggioramento delle attività formative per i lavoratori, e sottolinea la distanza che si è creata così con la Germania, i cui lavoratori, ben più adeguatamente formati e quindi ben più produttivi, possono permettersi alti salari e rimanere tuttavia competitivi con quelli asiatici. Passa infine ai programmi sociali, troppo sbilanciati sulle generazioni anziane sempre più numerose, e avari invece con i giovani, sui quali bisognerebbe investire.

Insomma, se un italiano leggesse un'analisi del genere senza sapere prima che riguarda gli Stati Uniti, potrebbe senz'altro pensare che essa parla proprio dell'Italia. Il che si presta a diverse considerazioni, che meriterebbe approfondire, sui problemi comuni a Paesi pur straordinariamente diversi fra di loro, che vivono tuttavia la fase matura del loro sviluppo industriale, sono perciò afflitti dalle sclerosi e dalle superfetazioni tipiche delle età mature e sono allo stesso tempo assoggettati ai confronti e agli effetti concorrenziali di un mondo globale, che è sempre più un sistema di vasi comunicanti.
Ma qui preferisco fermarmi alla constatazione di questa prima analogia per passare all'altra, quella dei due mesi che entrambi i Paesi hanno davanti. Gli Stati Uniti li passeranno per una buona metà con un governo in transizione nel passaggio fra il primo e il secondo mandato del presidente Obama. Ciò potrà ridurre l'attenzione sulla soluzione dei problemi, ma in misura certo ben minore di quanto può accadere in Italia, dove, con la campagna elettorale, siamo solo e soltanto in transizione. È pensabile che, ciò nondimeno, le prossime settimane servano, e proprio attraverso i confronti pre-elettorali, a mettere a fuoco le soluzioni che il governo costituito dopo le elezioni metterà poi in cantiere?

Le cronache della trascorsa settimana non sono di per sé incoraggianti. Come hanno notato diversi commentatori, si è cominciato a duellare più sugli aggettivi (con i quali definire i concorrenti) che non sui sostantivi (con i quali dare fisionomia e contenuto alle cose da fare). E questo ha eccitato gli animi, accendendo polemiche fra i protagonisti che, al di là delle loro stesse intenzioni, finiscono per essere lette dal comune cittadino più come offerte di schieramento che come proposte di soluzione.
Ma non è affatto detto che continui così. Intanto dobbiamo prendere atto che l'inizio di ogni campagna elettorale, specie quando vi sono, come in questa, dei nuovi protagonisti, è sempre segnato dal forte bisogno di ciascuno di far percepire la propria identità e il proprio spazio rispetto agli altri. Se il paragone non appare irriguardoso, è un po' come accade con i gatti che si trovano a condividere uno spazio comune e che iniziano delimitando ciascuno, e ciascuno a suo modo, quello che vogliono sia inteso come il loro territorio.

Superato l'inizio, però, i protagonisti della campagna elettorale non possono non portarsi sul terreno dei problemi e qui misurarsi sulle loro soluzioni. Sta caso mai a chi rappresenta l'opinione pubblica spingerli verso la massima concretezza e quindi al di là delle formulazioni ottative, che sono in realtà non soluzioni, ma promesse generiche (come una austerità che non sacrifichi la crescita, una politica non di tagli ma di riforme, una flessibilità che non sia precarietà et similia). Da questo punto di vista e a questi fini i media e quindi i giornalisti che saranno gli interlocutori quotidiani dei contendenti hanno una grande responsabilità. E incoraggia a pensare che la sapranno esercitare al meglio il diffuso atteggiamento critico con il quale è stato accolto l'avvio prima descritto di questa campagna.

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