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Questo articolo è stato pubblicato il 20 gennaio 2013 alle ore 14:11.

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Ho partecipato la scorsa settimana a Parigi a un incontro italo francese, dedicato al futuro dell'Europa.

Lo scopo era quello di verificare quanto collimano le nostre idee e soprattutto se la convinzione che l'integrazione politica sia oggi non più un sogno lontano, ma, come io e molti altri abbiamo cominciato a pensare, una necessità impellente riesca a far breccia anche in una Francia, nascosta da decenni dietro la formula ambigua della "federazione degli stati nazione".
L'incontro era del tutto riservato, perché solo così potevamo parlarci con la necessaria franchezza, e non posso quindi svelare né chi c'era, né che cosa ha detto ciascuno. Posso però raccontare le mie impressioni e sono impressioni che confermano la pazienza e l'impegno che ancora ci vorranno perché il vento spinga nella direzione giusta la nave europea.

Forse è stata anche colpa mia, forse sono stato troppo irruento nel prendere di punta proprio quella formula, la federazione degli stati nazione. Volevo che tutti noi prendessimo atto che essa ha felicemente coperto sin ad oggi l'ambivalenza dell'ermafrodita europeo, il suo essere in parte intergovernativo, in parte comunitario, mentre la dura lezione della storia è stata, ed anzi è, che l'euro poggiato sul coordinamento intergovernativo dei bilanci nazionali è intimamente fragile e dobbiamo trovare il coraggio di ancorarlo a un bilancio federale europeo.
Dicendo così, parlavo anche a me stesso, che in più occasioni avevo detto e scritto non solo che l'Unione europea, pur nata come un'organizzazione internazionale, non era mai andata oltre una ambivalente natura ermafroditica, ma soprattutto che di tale natura noi dovevamo appagarci. Non ero del resto il solo a ritenerla la più appropriata ad un mondo in cui ad essere per prima ambivalente è la vita di molti di noi, tra dimensione nazionale e dimensioni più ampie.

Ebbene, sono ora io a dover ammettere che l'ermafroditismo istituzionale avrà le sue ragioni, ma la stabilità dell'euro esige di più, di sicuro l'intergovernativismo non la assicura per le ragioni che più volte ho esposto ai lettori e che ricordo brevemente qui: genera vincoli che in ciascuno Stato membro sono attribuiti non a una volontà comune, ma ai governi degli altri Stati membri e sono perciò vissuti come intrusioni, le intrusioni reciproche generano ostilità reciproca e quindi danneggiano la coesione europea, il contesto intergovernativo, infine, non fornisce gli strumenti necessari a bilanciare le politiche di austerità, cosicché gli effetti recessivi di queste rimangono senza antidoti.
Ciò determina una situazione del tutto nuova rispetto al passato, perché trasforma quello che era un tempo l'ideale dei visionari alla Spinelli in una necessità tanto ineludibile quanto conveniente. Era difficile anni addietro convincere gli europei a dire sì all'Europa federale, oggi ci sono argomenti persuasivi tanto per i greci assoggettati a controlli interni impensabili per qualunque Stato membro di qualunque sistema federale al mondo, quanto per i tedeschi e i finlandesi, che si sentono costretti a pagare di tasca propria per i debiti altrui. Ve lo ricordate - si può dire loro - che a Maastricht vent'anni fa si volle un euro affidato al coordinamento delle politiche nazionali, per salvaguardare le responsabilità nazionali? E lo vedete che ora sta accadendo esattamente il contrario e siete meno liberi, più vincolati di quanto sareste in un sistema federale? Non è il caso allora di farlo? E non è il caso di ancorare l'euro a un bilancio federale, in modo che esso non dipenda più dai singoli Stati e la libertà di questi sia anche la libertà di fallire, senza danneggiare gli altri?

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