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Questo articolo è stato pubblicato il 20 gennaio 2013 alle ore 14:11.
Poche sere prima di andare a Parigi ne avevo parlato con il ministro degli Esteri olandese, Frans Timmermans, e la sua valutazione era stata che nel suo Paese, attentissimo agli equilibri fra il dare e l'avere, una argomentazione del genere poteva funzionare. Devo invece ammettere che con gli interlocutori francesi non è andata così. Sarà che nella loro bilancia del dare e dell'avere entra la Francia con il fortissimo sentimento nazionale che l'ha sempre animata, anche quando ha costruito e accettato l'Europa. Certo, erano francesi sia Robert Schuman sia Jean Monnet, due sicuri federalisti, ma lo stesso Monnet, gradualista e funzionalista per far passare le sue idee, fece per questo da battistrada involontario all'Europa delle patrie di de Gaulle. Da essa uscì poi la federazione degli Stati nazionali, che ha un accento più europeista, ma entrambe confinano il federalismo in una prospettiva sempre da auspicare, ma da non raggiungere mai.
Così un po' è stato anche questa volta e il mio ragionamento, ben più pragmatico dell'idealismo spinelliano, è stato invece assimilato, con un sorriso sinceramente benevolo, alla visione che porta quel nome. Ne sono stato onorato, ma ho subito pensato al percorso che bisognerà intraprendere per vincere, se mai sarà possibile, questa tenace resistenza amica.
Per ottenere i consensi a cui aspirano, dai francesi ma anche dagli altri, i fautori (come me) di una così robusta riforma istituzionale europea non devono fare l'errore di metterla in testa all'agenda. Devono partire invece dalle politiche di cui oggi si sente il bisogno per favorire la crescita voluta da tutti e dimostrare che una buona parte di esse - si tratti di energia, di telecomunicazioni, di innovazione o di difesa - sono oggi efficacemente perseguibili soltanto a livello europeo, ma a quel livello non ci sono le competenze né la "capacità fiscale" che sono necessarie. Devono poi sottolineare che il populismo di cui ci si lamenta non viene da fuori come un'influenza asiatica, è invece causato da noi e precisamente dalle politiche che l'intergovernativismo può dare, dall'assenza di quelle che non può dare e dal fatto che ciò accade perché esso dà spazio non ai cittadini, ma ai governi e alle loro burocrazie, i quali sanno solo imporre regole fiscali. Che senso ha, allora, lamentarsi del populismo, se siamo noi a fargli crescere l'erba sotto piedi e a rifiutarci poi di tagliarla?
La campagna elettorale per il prossimo Parlamento europeo nel 2014 sarà l'occasione per far maturare tale consapevolezza. Nel frattempo saranno benvenute tutte le innovazioni, compatibili con gli assetti esistenti, che portano verso una possibile costruzione federale, si tratti dell'unione bancaria o dei primi contenuti che si sapranno dare alla "capacità fiscale" dell'Unione. Al di là di ciò, tuttavia, bisognerà por mano ai Trattati, alle stesse Costituzioni nazionali e sollecitare magari il voto diretto dei cittadini. Lo chiederà la Corte costituzionale tedesca, ma non varrà per la sola Germania.
Sarà il momento della verità, l'hic Rhodus verso il nostro futuro. Per superarlo dovremo aver convinto tutti, o quasi, che Europa conviene.
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