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Questo articolo è stato pubblicato il 26 febbraio 2013 alle ore 06:27.

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Si è concretizzato il rischio che avevamo previsto e che una confusa campagna elettorale, tutta giocata sulla rincorsa delle più svariate promesse, aveva colpevolmente dimenticato. Le aspettative dell'Europa e dei mercati internazionali, per la prima volta in un confronto diretto, sono entrate in rotta di collisione con la "sovranità" che appartiene al popolo italiano, come sta scritto nella Costituzione.

Il cortocircuito andato in onda ieri con la Borsa e lo spread sull'ottovolante è stato subito chiaro. Su la prima e giù il secondo sulla scia dei primissimi dati che davano una vittoria del centrosinistra. Giù la Borsa e su lo spread non appena sono apparsi evidenti il forte recupero del centrodestra, l'exploit del Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo, il brutto risultato della "lista Monti" e la previsione di "non governo" nazionale come frutto del voto per il Senato.
Difficile dire come andrà oggi sui mercati, ma ogni più seria e legittima preoccupazione è figlia di un esame realistico dei risultati politici di ieri. Naturalmente non è in discussione la scelta dei cittadini elettori, appunto "sovrana", che come tale va sempre rispettata, anche se la sovranità monetaria non ci appartiene già da tempo e quella economica si va via via restringendo ed esaurendo.
Ma per evitare guai drammatici, insomma una deriva "alla greca", un Paese come l'Italia (terza economia d'Europa, seconda potenza manifatturiera dopo la Germania, un sistema che se va in default rischia di far crollare l'intera costruzione dell'euro) non può sottrarsi ad un esame di coscienza trasparente e spassionato.

O ccorre cioè domandarsi perché siamo arrivati al punto di riaffermare una sorta di "bipolarismo" sull'Europa, con più della metà del Paese "reale" - basta sommare i consensi del centrodestra e dei grillini - che continua a vivere male questo orizzonte, che pure rappresenta il nostro futuro nonostante i ritardi e gli stop sulla strada di un progetto autenticamente democratico, come gli "Stati Uniti d'Europa".
Un Paese fermo, in deficit di crescita da vent'anni e oggi in recessione, gravato da un debito pubblico pari al 128% del Pil e da una pressione fiscale effettiva che supera il 50%, è l'incubatore sociale perfetto nel quale la sfiducia diventa rassegnazione e questa, a sua volta, si trasforma in protesta politicamente rabbiosa. Se aggiungiamo gli scandali e l'inadeguatezza della classe dirigente politica, e non solo di quella, otteniamo un mix potenzialmente esplosivo. Oggi è sotto i nostri occhi.
Ci siamo fermati ad un passo dal baratro nel novembre 2011, abbiamo recuperato credibilità internazionale col governo Monti. Ma non è bastato, e non poteva bastare, il pur ritrovato controllo del bilancio pubblico. Il Paese reale dei cittadini e delle imprese si specchia nell'economia reale. E questa è a terra: credito razionato, sfiducia, segnali forti di de-industrializzazione. Si sarebbe dovuto dare più ossigeno riattivando progressivamente (e in concreto) la leva dei pagamenti dovuti dalla Pubblica amministrazione, ma non è accaduto. E dopo il gran colpo d'ala sulle pensioni, prima il caso-esodati e poi una riforma del lavoro che ha irrigidito la flessibilità in entrata hanno contribuito ad accrescere le incertezze collettive. A fronte delle quali lo stesso recupero di credibilità internazionale è finito col tempo per essere percepito come il frutto imposto dagli altri soci del "Club" Europa. Da ultimo, la stessa campagna elettorale del fronte più europeista invece di spiegare meglio l'Europa, e i passi necessari per riformarla in chiave pro-crescita, è finita per rincorrere le promesse fiscali di Silvio Berlusconi sul terreno che storicamente gli è più congeniale.

Che su questa situazione si sia innestata una buona dose di populismo elettoralistico da parte del centrodestra e del movimento dei grillini è un fatto. Ma è un fatto anche che dobbiamo fin da oggi fare i conti con una realtà (compresa la prospettiva di non-governo e di un Parlamento bloccato) che non piace a quei mercati ai quali pure ci dobbiamo rivolgere per finanziare il nostro debito da duemila miliardi.
Un incastro tremendo, che presuppone una grande capacità di critica ed autocritica ed un forte senso di responsabilità da parte di tutte le forze in campo. Lo stesso Beppe Grillo, vincitore di questa storica tornata elettorale, nega apertamente di essere un «antieuropeista», si dice schierato per «un'Europa diversa» e dichiara che il «problema non è l'euro o non euro ma il debito». Ci dica allora subito, e con chiarezza, come e in che tempi può essere affrontato questo problema.
twitter@guidogentili1

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