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Questo articolo è stato pubblicato il 08 marzo 2013 alle ore 07:55.

Saranno i poveri a dire se Grillo fa sul serio. Il Movimento Cinque Stelle ha il pregio di essere l'unico soggetto politico che include la lotta all'esclusione sociale tra le sue priorità ma il difetto di aver sinora formulato proposte vaghe, perlopiù suggestioni irrealizzabili.

Adesso deve decidere se utilizzare il proprio consenso per migliorare concretamente le condizioni delle famiglie in povertà o, invece, se limitare a collocarsi in una posizione anti-sistema, segnata da radicali critiche all'esistente e utopici progetti di cambiamento.
Il tema è l'introduzione di quello che Grillo chiama reddito di cittadinanza, cavallo di battaglia del nuovo soggetto politico, collocato come primo tra i 20 punti programmatici "per uscire dal buio". La proposta, tuttavia, è ancora poco chiara. L'eterogeneo universo di blog e dichiarazioni grilline ne presenta varianti diverse ma sostanzialmente riconducibili a due alternative: il leader genovese, infatti, alcune volte propone il "reddito di cittadinanza" propriamente detto e altre il "reddito minimo".
Il "reddito di cittadinanza" consiste in un trasferimento mensile a tutti i residenti, indipendentemente dalla loro condizione economica, al fine di fornire a ogni persona la somma sufficiente per la propria sussistenza e per partecipare alla vita sociale. Non esiste in nessun paese europeo, l'unica applicazione conosciuta è in Alaska. Quando il capo del Movimento afferma di voler dare 800-1000 Euro mensili ad amplissime fasce della popolazione punta, pur senza proporne un'applicazione completa, nella direzione del reddito di cittadinanza vero e proprio. Benché le stime possano variare, una misura con queste caratteristiche costerebbe una cifra almeno superiore al 2% del Pil.

Il "reddito minimo", invece, è un contributo mensile rivolto alle famiglie in povertà, che serve ad assicurare loro un livello di vita dignitoso dato che non dispongono delle risorse reddituali e patrimoniali sufficienti per farlo autonomamente. La sua assenza costituisce uno tra i maggiori ritardi del nostro welfare, dato che esiste in tutti i paesi europei tranne Italia e Grecia. Nell'applicazione più nota - assegnarlo alle persone in povertà assoluta, la peggiore, che colpisce il 5.7% della popolazione nel nostro paese - costerebbe lo 0.3% del Pil. Quando Grillo illustra esempi, come la Francia, si riferisce a questa seconda misura. La differenza con la precedente è netta quanto a destinatari e filosofia di fondo.
A cosa aspira davvero il leader genovese? Se alla prima ipotesi, l'irreale ambizione della proposta probabilmente permetterebbe di continuare a raccogliere - magari anche più di oggi - il malcontento esistente ma non consentirebbe ai Cinque Stelle di incidere effettivamente sulle condizioni di chi vive nel paese. La seconda, invece, non è detto aumenterebbe i consensi ma risulterebbe di grande impatto nell'attuale fase di crisi. Si tratterebbe d'introdurre il diritto di tutte le famiglie in povertà a ricevere un contributo economico adeguato, affiancandolo con doveri equivalenti (quali cercare lavoro o frequentare corsi di formazione); quando necessario, verrebbero forniti alle persone coinvolte anche servizi utili a migliorare la propria condizione (come quelli per l'impiego, educativi e gli asili). Lo Stato finanzierebbe la misura, che i Comuni gestirebbero in collaborazione con il Terzo Settore e che andrebbe introdotta gradualmente - in 3-4 anni - così da radicarla progressivamente nei territori e da diluire nel tempo l'incremento degli stanziamenti necessari. Le caratteristiche che il reddito minimo dovrebbe assumere sono condivise dalle diverse elaborazioni tecniche disponibili, provenienti da università, associazioni cattoliche, Banca d'Italia o altro. Infatti, su cosa fare contro la povertà in Italia gli esperti concordano, il problema è che nessun Governo l'ha mai fatto.

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