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Questo articolo è stato pubblicato il 23 marzo 2013 alle ore 08:28.
L'ultima modifica è del 23 marzo 2013 alle ore 10:29.

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«La dignità una volta persa non torna mai più», osserva un ottimo John Malkovich nell'ultimo film di Gabriele Salvatores «Educazione Siberiana». È desolante pensare che non è neppure necessario scomodare i grandi ragionatori di Stato del Seicento o le lamentazioni accorate di Machiavelli sul triste destino della patria italiana per commentare amaramente la figura imbarazzante, dilettantesca e inaccettabile del governo «in carica per gli affari correnti» sulla vicenda dei Marò italiani, riconsegnati come se nulla fosse ai loro sequestratori.
Basta un buon film di cassetta, è sufficiente un romanzo ben scritto, per rilevare la dimensione del danno inferto alla dignità nazionale - all'onore dell'Italia - tentando di ottenere la liberazione dei nostri marinai, detenuti illegittimamente dalle autorità indiane per oltre un anno, prima attraverso la via dello scippo con destrezza, e poi "calando le braghe" in meno di una settimana di fronte alla prevedibilissima reazione indiana. Se poteva essere criticabile l'aver intrapreso una scorciatoia furbesca per venire a capo della vicenda, è imperdonabile esser tornati sui propri passi, fornendo l'impressione non che l'Italia rispetti la parola data, ma che semplicemente si pieghi di fronte a chi fa la voce grossa, oltretutto insinuando il sospetto che la perdita di possibili lucrose commesse valga ben più della libertà di due nostri concittadini.

La sequenza degli errori, delle leggerezze e delle vere e proprie sciocchezze è fin troppo nota. Aver lasciato che il mercantile italiano entrasse in acque indiane senza aver preventivamente messo in sicurezza il personale militare, non essersi opposti alla discesa a terra dei sottufficiali Girone e Latorre, aver dapprima accettato un accordo per violarlo successivamente e, infine, aver tradito la parola data a due servitori dello Stato, che hanno obbedito nonostante il plateale voltafaccia del governo italiano.
Servitori dello Stato, si diceva. E qui tra tutti, ma proprio tutti, i soli che si meritano appieno questo appellativo sono il Capo di I classe Massimiliano Latorre e il Secondo capo Salvatore Girone. Sugli altri è davvero meglio stendere un velo pietoso. Dimostrando che cosa significhi il giuramento di fedeltà alla Repubblica, Latorre e Girone fanno ritorno presso chi li ha trattenuti illegittimamente per oltre un anno perché così è stato loro comandato. Chissà se i giornali che oggi ne lodano il senso dell'onore se ne ricorderanno ancora tra qualche tempo: magari quando questo o quel rappresentante della politica lascerà il suo alto incarico per ricoprire qualche altra ben remunerata e prestigiosa posizione, e avranno un qualche pudore, un qualche scrupolo in più, ad impiegare con eccessiva leggerezza l'espressione "servitore dello Stato". Certo, nulla vieta di servire lo Stato in posizioni elevate, sotto i riflettori dei media e magari "salendo in politica" di carica in carica. Ma è difficile scrollarsi di dosso la sensazione purtroppo tanto consueta che ancora una volta i migliori non siedano negli scranni più alti.

Come l'esperienza del governo tecnico ha ampiamente e impietosamente documentato, anche chi si considera temporaneamente "in prestito" alla politica assume rapidamente tutti i vizi dei "professionisti". A iniziare da quello dello scaricabarile. Di questo passo, perché non proporre Schettino per guidare il prossimo governo, qualora Bersani dovesse fallire? In fondo anche lui sembra fosse in tutt'altre faccende affaccendato mentre la nave di cui era responsabile andava per scogli. Il paradosso è che dalla tristezza e dalla vergogna di questa vicenda, che comunque getta nello sgomento due famiglie che avevano creduto alla praticabilità della "soluzione" escogitata dall'esecutivo, ancora una volta emerge la figura di un Paese migliore, con un più alto senso dello Stato, una più grande dignità e una più indomita fierezza di chi lo governa. Non c'è però da trarre grande consolazione da questo, poiché purtroppo implica che né la selezione elettorale né quella per cooptazione sono finora riuscite a dare all'Italia ciò di cui pure avrebbe bisogno: una classe di governo capace di assumere decisioni coraggiose e responsabilità doverose e di trarre le necessarie conclusioni dai propri fallimenti e un'élite politica degna di questo nome.

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