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Questo articolo è stato pubblicato il 28 marzo 2013 alle ore 08:45.

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La favola secondo cui il caso di Cipro è unico e non compromette il destino dell'euro non regge più, non solo perché è stata raccontata troppe volte negli ultimi anni, ma soprattutto perché il coinvolgimento dei creditori delle banche e soprattutto i controlli ai movimenti di capitale annunciati hanno implicazioni politiche gravissime.
Il salvataggio (almeno nell'ultima versione, non necessariamente quella definitiva) segna un punto nuovo nella crisi europea. In primo luogo perché per la prima volta una parte notevole delle perdite accumulate dalle banche viene addossata ai creditori.

Una svolta importante e politicamente accolta ovunque con favore, ma proprio qui sta il problema perché né il Paese né l'Europa sembrano essere adeguatamente preparati ad affrontare le conseguenze che ne derivano. Basti ricordare che fino alla settimana scorsa non esisteva un regime giuridico per la liquidazione delle banche in crisi, che ha dovuto essere varato in fretta e furia. Ma soprattutto perché, una volta accantonata la sciagurata idea di far pagare anche i depositi assicurati (cioè quelli sotto i 100mila euro) adesso le stime sulle perdite che graveranno sui depositi oltre quella soglia, continuano ad aumentare. All'inizio si parlava di poco più del 15%; lunedì le stime di molti analisti erano salite al 40; ieri il ministro delle Finanze cipriote è arrivato all'80. È proprio il caso di dire che qualcuno sta dando i numeri. È possibile che le autorità locali, a cominciare da quelle di vigilanza, siano così all'oscuro delle condizioni delle proprie banche? È possibile parlare di "orderly resolution" con un'incertezza del genere sulle cifre?

La gravità della situazione è testimoniata dal fatto che la chiusura delle banche, che inizialmente doveva durare due giorni, è continuata molto più a lungo. Ma non siamo più negli anni Trenta, quando chiudere gli sportelli voleva dire interrompere davvero ogni operazione bancaria. E infatti i bancomat continuano a funzionare, sia pure con limiti vari perché nessun Paese oggi può vivere per un paio di settimane senza banche. Ma quante altre operazioni online sono avvenute? È possibile che qualche cliente sia stato agevolato a favore di altri? Quanto è credibile chi nega una simile possibilità?
Disfarsi di questi dubbi con un'alzata di spalle, con l'idea che si tratta di problemi interni alla piccola isola, è illusorio e non coerente con la storia di questa crisi che dimostra che ogni vicenda periferica ha avuto forti implicazioni per l'intera area dell'euro. Basti guardare alla reazione del mercato azionario, che - tanto per cambiare - ha fortemente penalizzato le banche europee: l'indice di settore è sceso di 6 punti, contro una discesa di solo un punto dell'indice generale.

La gravità della situazione ha costretto anche a introdurre vincoli ai movimenti di capitali, per evitare che - come successe ai Paesi asiatici negli anni Novanta - il deflusso di fondi dia il colpo di grazia a un sistema finanziario che fa acqua da tutte le parti. Introdurre restrizioni alla circolazione di capitali anche all'interno di un'unione monetaria è una aberrazione logica che nessuno aveva finora osato concepire. Il fatto è che quella che appare una scelta inevitabile oggi, è tale solo perché la situazione è stata fatta incancrenire oltre ogni limite tollerabile. Ma quali garanzie di efficacia ha una misura del genere, al di là dell'effetto annuncio? È lecito dubitare della capacità delle autorità cipriote di applicare con rigore i vincoli e soprattutto le tecniche informatiche oggi schiudono autentiche praterie ai possibili evasori dei controlli.
Ma c'è una conseguenza ancora più grave perché per la prima volta si pongono limiti alla libertà di movimento dei capitali. Viene cioè ammainata una delle bandiere dell'intera costruzione europea, non solo dell'unione monetaria. Il che la dice lunga sulla gravità della situazione; non a caso, si era finora detto che un Paese che avesse voluto uscire dall'euro avrebbe dovuto introdurre controlli sui capitali. Cipro ci dice che questi possono essere necessari anche per rimanere nell'area dell'euro.

La vera lezione del caso Cipro è che la soluzione delle crisi affidata ai singoli Paesi apre sempre nuovi problemi e ha ricadute esterne che possono essere più gravi delle falle che tampona. L'ossessione teutonica che "ognuno deve prima rimettere la casa in ordine" riprenderà un concetto caro a Goethe, ma si scontra sempre di più con problemi che mettono a repentaglio la sopravvivenza dell'unione monetaria e con essa della costruzione europea.
Gli ultimi sviluppi della crisi dimostrano quanto l'unione bancaria, con la supervisione a Francoforte e un meccanismo accentrato di risoluzione delle crisi, rappresenti la strada maestra per rimettere in piedi l'euro. Purtroppo, a giugno scorso si è deciso che solo quando l'unione bancaria sarà varata, il fondo europeo potrà intervenire per salvare banche nazionali in crisi. Ma la drammatica evoluzione della crisi cipriota (con la Slovenia che appare vicina al gorgo) ripropone la consueta, lacerante, domanda: abbiamo abbastanza tempo? Quali prezzi stiamo pagando per una politica europea che continua a sfornare soluzioni che si muovono a una velocità inferiore ai problemi che si aprono? Solo nei paradossi di Zenone le tartarughe acchiappano le lepri.

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