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Questo articolo è stato pubblicato il 31 marzo 2013 alle ore 11:46.

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È pericoloso tutto questo ed è pericoloso che ci si possa legittimamente chiedere – lo ha fatto, sempre sul Financial Times, Gideon Rachman – come sia potuto accadere che un progetto europeo costruito proprio per porre fine ad ogni conflitto fra la Germania e i suoi vicini, abbia finito per generare un esorbitante potere della Germania, sempre meno tollerato dai suoi vicini.
I lettori sanno cosa penso. Abbiamo imboccato la strada sbagliata – quella di un metodo intergovernativo tanto intrusivo quanto inefficace – che ci ha portato in una strettoia, dalla quale dobbiamo assolutamente uscire (la trappola di cui Pellegrino Capaldo parlava ieri sul Sole 24 Ore). Uscire all'indietro non possiamo ed è bene che lo capiscano i nostalgici della sovranità monetaria. Certo, chi ancora la possiede ha margini di manovra ben superiori ai nostri. Ma chi tentasse di recuperarla dopo aver condiviso una moneta comune sarebbe visto dai mercati come un reietto e i prezzi che pagherebbe sarebbero di gran lunga superiori ai benefici.
La realtà è che dalla strettoia si esce solo in avanti, sul piano finanziario e fiscale come su quello politico. In una unione bancaria compiuta, enclaves come quella cipriota non hanno modo di conservarsi. In una Unione con adeguata capacità fiscale, il livello sovranazionale ha le risorse per stimolare le economie degli Stati membri soffocate dalle misure di austerità che essi devono adottare per contenere i loro debiti. In una Unione politicamente integrata le decisioni sono dell'Unione, non degli Stati più forti al suo interno.

Abbiamo, oltre che la necessità, la possibilità di realizzare un disegno del genere? Mi ha colpito incontrare europeisti un tempo combattivi e oggi invece sfiduciati e scettici davanti alla nuova divisione che attraversa l'Europa, quella fra creditori e debitori. Ma rimango convinto della possibilità di farcela a due condizioni:
eLa prima è che i paesi debitori la smettano totalmente di collegare la maggiore integrazione europea alla mutualizzazione dei loro debiti. Se lo fanno riescono solo a renderla più invisa agli altri, in nome per di più di una visione sbagliata, quella che al livello sopranazionale attribuisce un compito che non deve avere – pagare i debiti degli Stati membri – invece di quello che deve avere – reagire agli shock asimmetrici con strumenti di politica economica.
r La seconda condizione è il ritorno della Germania al ruolo di motore dell'integrazione. La cultura dell'integrazione non ne è mai uscita, ma – scrive Charles Grant il 28 marzo nel sito del suo Centre for European Reform – si contrappongono in Germania due orientamenti, l'uno favorevole a incisive riforme dei Trattati per fare il salto in avanti che è necessario, l'altro più propenso a piccoli ritocchi, sulla premessa che l'eurozona sarebbe ormai stabilizzata e non vale la pena imbarcarsi in processi troppo impegnativi e misurarsi con la crescente diffidenza degli elettori verso l'Europa.

Sarebbe un vero guaio se prevalesse il secondo orientamento. La stabilizzazione dell'eurozona, nei limiti in cui è intervenuta, è tutta e soltanto finanziaria, mentre si aggravano le condizioni recessive che fanno percepire l'euro come una gabbia e che solo un'Europa più integrata è in grado di contrastare. Di questo, e delle conseguenze che ne derivano anche a suo danno, chi sta meglio non sempre riesce a rendersi conto.
Qualcuno deve aiutare la Germania a farlo e possono essere soltanto Francia e Italia insieme, se escono l'una dal torpore europeo in cui è caduta, l'altra dalla crisi politica in cui è immersa. Quante cose importanti avremmo da fare, se avessimo un governo.

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