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Questo articolo è stato pubblicato il 31 marzo 2013 alle ore 11:47.

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È certamente sicuro che l'ingovernabilità dell'Italia sia dovuta a una inqualificabile e perigliosa legge elettorale, correttamente denominata "il porcellum". Tuttavia, l'ingovernabilità e il lento, ma inesorabile sprofondare del Paese in una irreversibile crisi economica, debbono essere attribuite a ben più profonde cause.

Ci accompagnano invero dati sconfortanti: disoccupazione giovanile in vorticoso aumento, previsioni di crescita negative solo per l'Italia nei Paesi del G7, piccole e medie imprese in stato di decozione, un apparato statale burocratico assurdamente costoso e inefficiente, mentre la Commissione Europea riaccusa l'inefficienza della giustizia civile, che anch'essa, con banche e pubblica amministrazione, soffoca ogni prospettiva di crescita. Se dunque è pur vero, come scriveva Benedetto Croce, che: «l'ombra del pessimismo, come copre di volta in volta la vita dell'individuo, così quella della società, e i timori e le paure e disperazioni sull'avvenire sono di tutti i tempi della storia», quell'ombra pare oggi più scura, per il degrado delle istituzioni democratiche e per l'incapacità delle classi dirigenti di trovare soluzioni. Sembran queste esclusivamente coinvolte in conflittualità interne, riproposte in squallidi e spesso volgari attacchi personali, il cui unico movente non è certo un interesse superiore di qualsivoglia genere, ma pura egolatria. Una egolatria amplificata dalla società delle veloci comunicazioni, insinuanti accompagnatrici dell'egoarca di turno, sospettose di qualsivoglia altro centro di potere.

La nostra democrazia è così andata, secondo la teoria dei sistemi, in "sovraccarico", sia per l'incapacità di rispondere al crescente numero delle legittime domande dei cittadini, in urgente bisogno di tutela dei loro diritti fondamentali, sia per l'inceppamento involutivo della sua macchina. È allora d'uopo far riferimento ai recenti risultati del voto popolare ed al necessario ed apparentemente dimenticato richiamo, posto già da Tocqueville, come fine ultimo della democrazia, cioè una maggior eguaglianza di condizioni economiche dei cittadini. La lotta alle disuguaglianze, come primo indiscutibile dovere delle democrazie, pare irrimediabilmente superata o quanto meno dimenticata. A causa poi di quel sovraccarico, del quale ho appena parlato, la caratteristica della nostra società democratica è quella di essere retta da un potere sempre più diffuso e frantumato in vari centri, in concorrenza fra loro.

La grave conseguenza che stiamo ogni giorno verificando è quella di un dirompente conflitto di interessi fra quei soggetti stessi che tali conflitti dovrebbero invece dirimere. Conflitti quindi fra organi di governo, magistratura, autorità indipendenti e infine e soprattutto fra i partiti. Questi ultimi poi, vittime di squalificanti gladiatorie competizioni, sospetti continui, espulsioni o spaccature, appaiono pur soggetti recentemente a un subitaneo cambiamento, rappresentato dal nuovo Parlamento, giunti al punto di cercare una loro identità fuori dell'alveo costituzionale, che solo li può contenere, per rincorrere invece una continua "cupio dissolvi"; sempre tuttavia sul limite delle derive del cesarismo, comunque schiavi dell'egolatria dei loro leaders o presunti tali. Su queste premesse la classe politica italiana risulta incapace di darsi un nuovo Governo, con tre blocchi di rappresentanti, ognuno dei quali, non avendo i numeri necessari, rimane impantanato nella trappola di un distorto democratico principio maggioritario. La verità è che, in mancanza di autorevolezza, i numeri non aiutano. La recente elezione di Papa Francesco sembra, avendole superate, farci ricordare, oltre che recenti, anche antiche crisi, quando fin dai primi concilii lateranensi i canonisti, grandi teorici del principio maggioritario, per non contare solo i numeri e consegnare il potere alla maggioranza (la "maior pars"), decisero che si doveva tenere conto e pesare anche il voto della parte più sana e più saggia (la "sanior pars"). Fu così che la minoranza, rappresentata dal grande Nicolò Cusano, convinse nel 1437 l'imperatore, col consenso di Papa Eugenio, di essere considerata la "sanior pars".

Ebbene, il paradosso è che oggi tutti i nostri tre partiti più votati si ritengano a torto la "sanior pars"; anche quando uno di loro è mosso in guisa quasi esclusiva dalle tentazioni di un egoarca che, a causa di interessi personali, ha tentato di svilire l'autorità e la dignità dei poteri dello Stato, mentre un altro vuole più semplicemente eliminare partiti e democrazia. Così tutti e tre gli schieramenti, per ragioni e con modalità differenti, impediscono la formazione di un nuovo governo stabile, più che mai urgente e indispensabile oggi in Italia, in mancanza di una federazione europea ed in presenza di una globalizzazione economica, le cui opache élites dominanti vanno sradicando i diritti dei cittadini, aumentando con l'imposizione delle loro politiche, disuguaglianze e miseria. È così che il conflitto fra i poteri democratici è diventato irresponsabilmente patologico, confondendo la novità con lo sfascio e travolgendo con il disprezzo per le nequizie passate i valori della nostra civiltà.

Basta giochi, dunque. Si, che al più presto si risvegli in ciascuno la virtù dello spirito italiano, cosicché l'estrema decadenza possa diventare occasione propizia perché forse per questa rinascita, come già aveva previsto Nicolò Machiavelli: "era necessario che l'Italia si conducesse nei termini presenti (…) senz'ordine, battuta, spogliata, lacera, corsa, ed avesse sopportato ogni sorta di rovina" (Il Principe, XXVI).

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