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Questo articolo è stato pubblicato il 31 marzo 2013 alle ore 11:43.

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Perché ti chiamano il Califfo? «Pe' ‘e donne». Ai giornalisti che andavano a fargli visita nella villa di Acilia per porgli la solita scontata domanda, Franco Califano rispondeva così, senza pensarci su un attimo, sfoggiando il suo sorriso furbo sotto gli immancabili occhiali da sole.

Sfacciato, ironico e anti-intellettuale come il destino che ha scelto di portarselo via a 74 anni, in quella stessa casa dagli arredi un po' kitsch, la sera di Sabato Santo, all'indomani della scomparsa di Enzo Jannacci, padre nobile dell'italica tradizione cantautorale.
Giocava a fare il latin lover, ostentava gli eccessi di una vita percorsa spesso contromano, ma dietro la camicia sbottonata sull'appariscente catenina d'oro, era uno tra i più sensibili autori di testi della musica leggera italiana. E, sempre a modo suo, si definiva «cattolico apostolico romano». Senza di lui non avremmo avuto brani arcinoti del nostro songbook come «Un grande amore e niente più» o fondamentali come la struggente «Minuetto» portata al successo da Mia Martini.
«Fino all'ultimo giorno non ha smesso di cantare e di scrivere canzoni», racconta a caldo il suo storico collaboratore Enrico Giaretta che lo accompagnava al piano. «Il Maestro stava per partire per un mini tour con pianoforte, batteria, chitarra e contrabbasso. Era entusiasta di questa nuova avventura. Avremmo dovuto suonare il 4 aprile a Porto Recanati e, pochi giorni dopo, avevamo un appuntamento in sala di incisione ad Avezzano. Arriva all'improvviso, la notizia della sua morte. Siamo tutti increduli. Si è chiuso per noi un'era». Era malato da tempo ma, in perfetta coerenza con il personaggio, faceva fatica ad ammetterlo. Il progetto in questione non era altro che la rivisitazione in chiave jazz di brani tradizionali romaneschi. Un azzardo, come quelli del tavolo verde che tanto amava.

Originario di Pagani, cittadina del Salernitano, secondo la leggenda nacque nella pancia di un aereo che, alla fine dell'estate del '38, sorvolava il cielo della Tripoli italiana. Visse per otto anni a Milano, ma nessuno se n'è mai accorto: con la sua voce roca e quella poetica intrisa di maledettismo borgataro era un pezzo di Roma. O forse, come recitava il titolo del suo primo Lp datato 1972, soltanto «'N bastardo venuto dar Sud». Una vita di eccessi mai negati, la sua, tra canzoni, concerti, night, serate nei piani bar, alcol e droga. Arrestato la prima volta nel 1970 per possesso di stupefacenti, venne assolto con formula piena. Da questa esperienza carceraria nascerà l'album «Impronte digitali» dell'84. Ci provò anche con la politica: si ricorda il breve flirt con Bettino Craxi e pura una candidatura con il Psdi nel ‘92 che non portò da nessuna parte. Non ha mai nascosto le sue debolezze, anzi: in improbabili opere letterarie come «Calisutra» e in trasmissioni televisive di dubbio gusto come «Music Farm» provò a trasformarle in punti di forza. Forse la sua debolezza più grande è stata piacere alle persone sbagliate. Cosa ci lascia? «Che te posso da', – risponderebbe lui – la mia eredità è 'sta faccia da bastardo». Lasciamogli fare il Califfo fino in fondo.

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