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Questo articolo è stato pubblicato il 21 aprile 2013 alle ore 10:35.

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Quello che sta avvenendo nel Pd in queste ore è l'effetto ritardato della sconfitta elettorale. Se Pier Luigi Bersani avesse vinto le elezioni tutto quello che si è visto dal 26 febbraio a oggi non sarebbe accaduto.
I problemi di fondo che affliggono il Pd sarebbero rimasti ma la loro soluzione sarebbe stata rimandata. Quindi la vera domanda da porsi è perché questo Pd e questa sinistra non siano riusciti nemmeno questa volta a convincere la maggioranza degli italiani della bontà della loro proposta politica. Eppure le circostanze erano favorevoli.

Era già successo nel 1994. Anche allora le inchieste della magistratura, gli scandali, la disaffezione degli italiani nei confronti della classe politica avevano creato un vuoto che la sinistra avrebbe potuto sfruttare. L'elettorato moderato – ex Dc ed ex Psi – era rimasto senza punti di riferimento. C'erano milioni di elettori disponibili. Le nuove regole di voto favorivano la vittoria della minoranza più forte. Sembrava che la sinistra progressista di Achille Occhetto potesse farcela anche solo con il 30% dei consensi. Invece è arrivato Silvio Berlusconi. Il centro-destra ha ritrovato una qualche unità sotto le bandiere del Cavaliere e la maggioranza dei moderati ha preferito l'offerta politica "nuova" di Berlusconi e di Bossi a quella "riciclata" di Occhetto. E la sinistra ha perso una occasione storica per creare intorno a una proposta politica innovativa un nuovo blocco elettorale.

Ci ha riprovato nel 2008 con Walter Veltroni. Intanto, sulle macerie dell'Unione, era nato il Partito democratico. L'idea di fondo era quella di creare un partito nuovo che offrisse agli italiani una immagine diversa da quella della sinistra tradizionale. Un partito meno identitario con l'obiettivo di conquistare consensi nuovi e non di vincere con quelli vecchi. Questa era il senso della vocazione maggioritaria. Veltroni affrontò una competizione elettorale in condizioni difficili. Perse ma perse bene. A differenza del 1994 i voti in libera uscita erano pochi. Eppure il Pd superò il 30 per cento. Era una buona base di partenza su cui costruire il futuro. Invece, a Veltroni fu imputata la sconfitta elettorale, come se quelle elezioni non avessero un esito scontato. Era il segnale chiaro di quanto poco la classe dirigente del Pd avesse creduto nel progetto del partito nuovo. E Veltroni gettò la spugna senza lottare. La crisi del Pd è cominciata allora.

Tra il 2008 e il 2013 cambia completamente il quadro politico. Per molti aspetti si torna al 1994. La miscela di crisi economica, scandali, rivolta nei confronti della vecchia politica crea di nuovo le condizioni per un cambiamento profondo degli schieramenti elettorali. Un elettore su due cambia voto rispetto a cinque anni prima. Il livello di volatilità elettorale è addirittura superiore a quello del 1994. La destra però non è più quella di allora, né quella del 2001 o del 2008. Si è divisa. I suoi elettori sono delusi o disorientati. Berlusconi ha perso il suo appeal. Non è più il nuovo. Anche per chi decide ancora di votarlo è solo il "meno peggio". Otto milioni di elettori che avevano scelto Popolo della libertà o Lega nel 2008 disertano nel 2013. Si apre una altra grande opportunità per la sinistra di allargare la sua base di consensi.

E invece la coalizione di Bersani e di Vendola non solo non guadagna voti ma ne perde tre milioni e mezzo. E, quel che è peggio, non vince. Non sono bastate la crisi del berlusconismo e la mobilitazione delle primarie a consentire a questo Pd e a questa sinistra di arrivare al governo del Paese. A conti fatti sia la sinistra di Occhetto che quella di Veltroni hanno preso più voti di quella di Bersani. I dati nudi e crudi sono questi: Veltroni 37,5%, Occhetto 32,7%, Bersani 29,5 per cento. Non solo. Il tanto criticato Pd di Veltroni ha fatto molto meglio di quello di Bersani: 33,2% contro 25,4 per cento.
La banale verità è che anche questa volta la sinistra si è presentata davanti agli elettori con una proposta politica inadeguata. Una volta messo da parte Matteo Renzi non è riuscita a intercettare la domanda di cambiamento che è il dato dominante della politica italiana oggi.

E così i suoi punti di forza e di debolezza sono rimasti quelli di sempre. Ha conservato il suo predominio nelle regioni della ex zona rossa ma anche qui ha perso molto. Anzi proprio qui ha perso di più. È rimasta minoritaria al Nord, soprattutto nel Nord-Est dove i voti in libera uscita dalla Lega sono andati al MoVimento 5 Stelle. Ed è rimasta prigioniera della volubilità del voto meridionale, dove non è riuscita a prevalere sulla destra se non in Basilicata.
Bersani ci ha messo del suo con una campagna elettorale poco efficace. E la durezza della crisi economica ha fatto il resto. Ma il problema viene da lontano. Il Pd è un progetto incompiuto. La fusione tra Ds e Margherita non è riuscita. Ha prodotto una cosa amorfa. Perché fare un partito unico se non per dar vita a una formazione veramente diversa dalla pura e semplice sommatoria dei due partiti esistenti? Questo non è successo.

I nodi non sono stati sciolti. Identità forte e vocazione maggioritaria non sono conciliabili. Ma a cosa serve un Pd che non va a cercarsi nuovi consensi aldilà del suo bacino tradizionale per diventare maggioranza nel paese? Ma perché questo accada le sue diverse anime devono riuscire a trovare una sintesi che vada oltre le vecchie identità di provenienza per offrire agli elettori una proposta fatta di nuovi contenuti, una nuova classe dirigente e un nuovo modo di comunicare. Ci riuscirà dopo questa ennesima sconfitta?

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