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Questo articolo è stato pubblicato il 23 aprile 2013 alle ore 07:00.

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I Governi italiani non hanno mai brillato in sede internazionale per l'accuratezza delle loro previsioni macroeconomiche. Ma a nostra memoria non erano mai avvenute revisioni così frequenti e massicce come in questo periodo. Un anno fa il Def stimava per il 2012 una flessione del Pil dello 0,4%, ed annunciava l'inizio della ripresa nel secondo semestre e una crescita positiva dello 0,5% nel 2013. Nel nuovo Def, presentato la scorsa settimana, il consuntivo 2012 scende a -2,4%; pochi hanno notato che il trend sottostante è -4,8%, e solo l'andamento straordinario e, forse, irripetibile, delle esportazioni nette ha limitato i danni. Anche la stima per il 2013 scende a -1,3%. In 12 mesi si è passati dalla previsione di un aumento dello + 0,1% nel biennio alla previsione di una flessione cumulata del -3,7%!

Quanto alle finanze pubbliche, il Def 2012 prevedeva che il deficit sarebbe sceso quest'anno allo 0,5% del Pil; ma il Def 2013 indica che sarà il 2,9%: nel biennio 2012-13 la differenza in peggio è di circa 4 punti percentuali. Ed è stato fatto notare che quest'ultima cifra non tiene conto di spese certe ed inevitabili, come il rifinanziamento di alcuni regimi speciali della cassa integrazione, le missioni militari all'estero ed altro ancora. Anche per la finanza pubblica le cifre del Governo sembrano scritte sull'acqua.
Il Def "vede" ora una ripresa a partire dalla seconda metà del 2013 e una crescita dell'1,3% nel 2014. Due elementi contribuirebbero alla svolta dell'economia italiana: il pagamento dei debiti della Pa (con un effetto stimato pari a +0,7% sul Pil), e il ritorno dell'ottimismo associato alla gioia di leggere le dichiarazioni del Commissario Rehn e di altri che ci dicono che l'Italia ha rimesso i conti in ordine. La maggior parte degli osservatori prevede invece che la perdita di reddito nel 2013 sarà fra -1,5 e -1,9% e che neppure il 2014 vedrà la crescita. Realisticamente, la strada indicata dal Def è senza speranza.

Il pagamento dei debiti della Pa è diventato l'ultimo luogo comune cui aggrapparsi. La sovrastima dei suoi benefici da parte del governo è sorprendente, trattandosi di politiche keynesiane, seppur mascherate: deficit spending. La direzione è giusta. Ma non vediamo come si possa determinare ciò che prevede il Def: «La quota di iniezione di liquidità che rimarrà alle imprese sarà in buona parte utilizzata per … investimenti», mentre la quota che andrà alle banche si trasformerà in «…credito». Si tratta di ipotesi improbabili, stante l'ampia capacità produttiva inutilizzata, e la fiducia delle imprese ai minimi storici.

Per quanto il pagamento dei debiti della Pa sul piano morale sia sacrosanto (anche se non privo di controindicazioni, come hanno spiegato Alessandro Penati su Repubblica e Vincenzo Visco sul Sole), esso è assolutamente insufficiente per determinare un'uscita dalla crisi, perché, essendo un provvedimento temporaneo e privo della massa critica necessaria, non cambia le aspettative e, dunque, la propensione alla spesa.
L'idea di salvare le imprese con interventi diretti - comune a tante proposte, come quelle che mirano a riattivare il credito con espedienti finanziari - è fuorviante. Fondi, crediti, aiuti, sgravi alle imprese possono prolungare l'agonia; ma solo una ripresa stabile dei consumi, quindi dei fatturati, può risanare i bilanci delle imprese, ridurre le sofferenze bancarie, riattivare il credito, gli investimenti, l'occupazione, e la solvibilità dello Stato.

È perciò indispensabile selezionare le politiche keynesiane in base all'efficacia. Dalla crisi si esce soltanto con una forte spinta alla domanda aggregata tale da sorreggere un mutamento delle aspettative in senso più ottimistico, un ottimismo "sostenibile", che nasca a ragion veduta da una politica del Governo esposta con chiarezza e perseguita con costanza e con impegno. Si tratta di scegliere un'impostazione e seguirla fino in fondo: collezioni di varie misure, le riduzioni di certe imposte, finanziate con aumenti di altre imposte non servono praticamente a nulla.
Il dilemma italiano è che anche le proposte più ingegnose, come quella di Quadrio Curzio e Coltorti sul Sole del 16 aprile, sono utili ma non sufficienti: grattano il fondo del barile ma si scontrano con la estrema limitatezza delle risorse disponibili dopo due anni ininterrotti di recessione.

L'Europa e la Bce potrebbero e dovrebbero riconoscere questa situazione e avviare politiche del cambio, monetarie e fiscali capaci di incidere sensibilmente sulle disponibilità di risorse per consumi privati delle fasce meno abbienti e sul volume degli investimenti pubblici. E sarebbe semplice invertire il corso delle aspettative se le autorità europee assumessero verso la crescita lo stesso atteggiamento che ebbe lo scorso anno Mario Draghi, quando dichiarò che la Bce era determinata a fare tutto ciò che era necessario per salvare l'euro. Purtroppo, tutte le proposte in questo senso (Eurobonds, G20, ecc.) sono state rispedite al mittente.

La rottura dell'euro è dunque inevitabile? In realtà, esiste una possibilità che l'Italia ce faccia da sola, senza uscire dall'euro, ma riaffermando, in modi che siano formalmente rispettosi dei trattati europei, la propria determinazione a condurre politiche di sostegno della domanda. Politiche in grado di incidere in tempi brevi sulle condizioni dell'occupazione, portare in 12 mesi la dinamica di medio termine del Pil da -4,8% a +2%, frenare l'attuale tendenza esplosiva del rapporto debito/pil fino ad invertire il trend. Queste politiche presentano aspetti delicati, debbono essere studiate con cura e condotte con grande equilibrio, ma sono fattibili e sarebbero efficaci.

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