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Questo articolo è stato pubblicato il 28 aprile 2013 alle ore 06:30.

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Fabrizio Saccomanni a Palazzo Koch in una foto d'archivio (Ansa)Fabrizio Saccomanni a Palazzo Koch in una foto d'archivio (Ansa)

A oltre due mesi dalle elezioni, e a cinque dalle dimissioni di Mario Monti, l'Italia torna ad avere un Governo nel pieno dei suoi poteri. In questi 61 giorni, trascorsi tra querule cantilene su improbabili candidati al Colle e vere e proprie sciocchezze sulla democrazia diretta via web, abbiamo perso altre tremila imprese industriali con i relativi posti di lavoro. È su questo che il governo Letta sarà giudicato: sulla capacità di rispondere all'emergenza lavoro e di frenare l'emorragia che va dissanguando il sistema produttivo italiano.

Il Governo nasce con non poche incognite. L'inesperienza dei suoi componenti, l'incerto sostegno parlamentare, la coesistenza contro-natura di ministri Pd e Pdl. Ma ciascuno di questi elementi può ribaltarsi in un argomento a favore. Le risorse giovanili messe in campo, in particolare, possono rivelarsi un'importante leva di rilancio. Perciò non vale la pena soffermarsi, e perdere altro tempo, in discussioni sui nomi, le età e la solidità politica dei componenti del primo governo Letta. Quello che conta è che questi giovani ministri si mettano subito all'opera e diano risposte immediate al Paese, ai suoi ragazzi senza lavoro e alle sue imprese senza futuro. Risposte molto concrete. L'ultimo numero dell'Economist racconta di una jobless generation, di 26 milioni di giovani sotto i 24 anni che nei Paesi Ocse non lavorano né studiano, di un aumento del 30% nella disoccupazione giovanile dal 2007 a oggi. Secondo uno studio Gallup su scala planetaria mancano 1 miliardo e 800 milioni di posti di lavoro. È una guerra che l'Italia sta perdendo, con i suoi 1,4 milioni di posti in meno dal 2007 e i suoi disoccupati a oltre tre milioni. Serve una discontinuità immediata.

Serve una discontinuità immediata per ridare speranza a chi oggi neppure lo cerca più un lavoro. Un nuovo corso che deve cominciare dalla modifica, sin dai primi consigli dei ministri, della riforma Fornero. Nella fase più dura della crisi, quella riforma ha contribuito ad espellere lavoratori dal mondo del lavoro. Le nuove rigidità si sono tradotte in un crollo delle assunzioni proprio nei contratti più flessibili. Il neoministro Enrico Giovannini ben conosce queste cifre e sa che bisogna porvi rimedio.
Combattere la guerra del lavoro significa anche mettere le imprese nelle condizioni di difendersi e di rilanciarsi. A cominciare proprio dal costo del lavoro. L'Italia è tra i primissimi Paesi dell'Ocse per cuneo fiscale. Significa che le nostre imprese pagano molto lavoratori che guadagnano poco. Ecco un'altra priorità. La Confindustria ha dato da tempo la sua disponibilità a rinunciare agli incentivi diretti alle imprese in cambio di una riduzione significativa di questi oneri fiscali, non ci sono ragioni per non procedere.

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