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Questo articolo è stato pubblicato il 31 maggio 2013 alle ore 07:50.

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Sono le banche sottocapitalizzate a bloccare la ripresa economica, lesinando il credito a motivo della loro insufficiente dotazione di capitale? Questa tesi, continuamente riproposta da commentatori anche autorevoli, secondo noi è perlomeno dubbia.
Partiamo dal capitale bancario. È vero che tra le organizzazioni internazionali prevale l'idea che le banche europee debbano ancora far molto per rafforzarsi patrimonialmente.

Ma è anche vero che, per una volta, in termini di adeguatezza del capitale siamo messi meglio degli altri. L'Ocse ha calcolato il fabbisogno di ulteriore capitale necessario al sistema bancario di ciascun paese dell'area euro in rapporto al Pil. In base a tali dati, il fabbisogno italiano è il più basso di tutti, inferiore al mezzo punto di Pil. E i dati di bilancio lo confermano. Il coefficiente di patrimonio di base CT1 (Core Tier 1) di sei banche europee come Ubs, Cs, Deutsche, Hsbc, Barclays e Bnp, che per la loro importanza sistemica hanno bisogno di maggiore capitalizzazione, è compreso tra 8,4% e 10,1% nel primo trimestre 2013. Il CT1 delle nostre due banche principali, Intesa e Unicredit, è ben superiore, pari a 11,2 e 10,8%, rispettivamente. Persino Mps, dopo la pulizia di bilancio 2012 che l'ha mandata in rosso per oltre 3 miliardi di euro, nel primo trimestre 2013 ha raggiunto un CT1 di 11,8% con l'emissione di 4,2 miliardi di euro di "Nuovi Strumenti Finanziari" sottoscritti dallo Stato. Se avrà utili inferiori agli interessi dovuti, pagherà gli interessi in azioni e comincerà ad essere statalizzata sin dall'anno prossimo, ma quanto a solidità patrimoniale ha rimesso le cose a posto. Delle rimanenti sette maggiori banche italiane, a parte Carige, le altre sono più o meno patrimonialmente adeguate - considerata la loro dimensione relativamente contenuta - con CT1 oltre 8%. Quindi sino ad ora nove delle 10 banche italiane maggiori, che assieme coprono i tre quarti del mercato del credito, sono in linea con i nuovi e più severi requisiti di capitale imposti dai regolatori dopo lo scoppio della crisi finanziaria internazionale del 2007.

Con questo non intendiamo negare che la struttura di governance delle banche italiane sia esente da difetti; che nei prossimi anni le banche non debbano far fronte a ulteriori aumenti di ratios patrimoniali, specie del capitale Tier 2; che alcune banche minori siano poco capitalizzate; o che il protrarsi della crisi e l'accumularsi delle perdite intaccherebbe la solidità patrimoniale degli intermediari. Semplicemente diciamo che, nella prospettiva dell'analisi delle cause del protrarsi della tremenda crisi economico-finanziaria odierna, non è esatto affermare che le banche italiane maggiori siano oggi a corto di capitale.
Veniamo ora alla questione se l'erogazione del credito all'economia sia insufficiente, nonostante gli ampi finanziamenti a buon mercato concessi dalla Bce. Secondo i dati mensili dell'Abi sui "prestiti a famiglie e imprese non finanziarie", ossia i soggetti che avrebbero bisogno di finanziamenti per investire ma non riuscirebbero ad ottenerli, lo stock nominale di prestiti di fine febbraio 2013 è del 2,8% inferiore a quello di un anno prima, ma rimane comunque superiore del 9,7% rispetto a quello di due anni prima (e del 14,8% rispetto a fine 2007). In rapporto al Pil nominale, lo stesso stock di prestiti è salito dall'82,3% di fine 2007, all'84,9% del 2008, 88,5% del 2009, 94,1% del 2010, 95,7% del 2011 e infine al 95,5% di fine 2012. Insomma, sino a pochi mesi fa il credito bancario, in assoluto e rispetto al Pil, aveva continuato a salire, mentre la discesa è relativamente contenuta rispetto alla forza della recessione.

Alcuni osservatori si sono domandati come mai la liquidità ottenuta dalle banche grazie agli Ltro non abbia prodotto un aumento del credito. Il fatto è che gli Ltro sono stati una ciambella di salvataggio lanciata dalla Bce alle banche in una fase in cui esse non avevano più la possibilità di finanziarsi mediante emissione di obbligazioni, perché il mercato si era completamente chiuso. Quella liquidità non è stata un'aggiunta netta, ma è servita per rifinanziare obbligazioni bancarie in scadenza, evitando problemi altrimenti molto seri di rifinanziamento, che avrebbero potuto determinare precipitose contrazioni degli attivi. E anche oggi, quasi a metà della vita utile di quei finanziamenti Ltro triennali, il mercato obbligazionario rimane quasi chiuso per le banche dell'area Sud dell'Euro, con sporadiche finestre temporali disponibili per il lancio di qualche collocamento obbligazionario, eseguito a caro prezzo soprattutto per fini segnaletici. Per giunta, è chiuso anche il mercato delle cartolarizzazioni e dei covered bond, per anni fonte copiosa di finanziamento bancario: le uniche operazioni che si fanno sono "auto-cartolarizzazioni", per trasformare mutui in titoli da consegnare in repo alla Bce. L'unica fonte in lieve crescita, strano ma vero, sono i depositi bancari, che in parte sostituiscono le obbligazioni bancarie.

Il quadro del credito si chiarisce con l'evoluzione dei tassi di interesse sui prestiti bancari. Le banche li fissano in modo da compensare almeno i due principali costi attesi, il costo dei fondi e il costo del rischio. Per esempio, applicano a famiglie e imprese tassi attivi corrispondenti ad un valore prefissato del rapporto tra i ricavi (=margine+commissioni) al netto delle perdite attese e il capitale assorbito. Mentre il costo dei fondi, per le banche di Paesi dell'area Euro, è in gran parte determinato dalla politica monetaria della Bce, il costo del rischio è diverso per ogni Paese. E così, nonostante la politica monetaria della Bce abbia abbassato i tassi nella zona euro, in Italia i tassi di interesse bancari sui prestiti a famiglie e società non finanziarie sono calati di poco, perché nel contempo sono schizzate in alto le perdite su crediti, per riflesso ritardato dell'esplosione della crisi economica. Secondo i dati Bloomberg, l'incidenza dei crediti problematici sul totale è salita in Italia dal 5% circa nel 2007 al 15% di fine 2012, un valore che ci vede al quarto posto nella Ue dopo Irlanda, Ungheria e Grecia. Il rapporto tra accantonamenti a fondi rischi su crediti e prestiti bancari totali, l'indicatore di costo del rischio per gli analisti bancari, è ormai elevatissimo per tutte le banche italiane e per Unicredit e Intesa è stato pari a circa 1,4% nell'ultimo biennio.

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