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Questo articolo è stato pubblicato il 09 giugno 2013 alle ore 08:32.
L'ultima modifica è del 09 giugno 2013 alle ore 14:21.

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Dopo aver rivisto al rialzo le proprie stime sulla dimensione dei moltiplicatori e quindi degli effetti negativi dell'austerità, il Fondo monetario prosegue il proprio mea culpa, e pubblica un rapporto nel quale si ammettono errori di sottovalutazione degli effetti deleteri del programma di aggiustamento domandato alla Grecia a partire dal 2010.
Ultimamente l'austerità, almeno a parole, sembra non esser di moda. Questa è certamente una buona notizia, visto che la zona euro è invischiata in una recessione di cui non si vede la fine. Il calo di consumi e investimenti (-6,8% tra il 2008 e la fine 2012, contro +4% negli Stati Uniti), non è sufficientemente contrastata, da un'espansione della domanda pubblica. Anzi, il consolidamento fiscale dei Paesi del Sud è stato accompagnato da politiche neutrali o moderatamente restrittive nel Nord, con il risultato che la politica aggregata, dal 2010 in poi è stata restrittiva e prociclica.

Nonostante la grancassa mediatica sulla fine dell'austerità, non si osserva alcun cambiamento significativo di orientamento. Una politica espansiva nella periferia dell'Eurozona (con l'eccezione della Grecia) non solo sarebbe auspicabile, ma incontrerebbe il favore dei mercati e sarebbe quindi sostenibile. Ciononostante, non è un'opzione realistica nelle condizioni attuali; il massimo che l'Italia o la Spagna possono ottenere (e stanno ottenendo) oggi è un allungamento dei tempi del consolidamento. Anche un'espansione fiscale tedesca oggi non sembra probabile, con le elezioni alle porte e gli euroscettici più forti che mai.
Ma cosa possono fare allora i Paesi della periferia, nell'attesa godotiana di politiche espansive al centro, e con margini di manovra fiscale limitati se non inesistenti? In realtà molto. Se la domanda pubblica non può aumentare (e continuerà di fatto a diminuire, anche se più lentamente), occorre trovare il modo di rilanciare la domanda privata, che continua a crollare (è notizia di giovedì che l'indicatore di Confcommercio ha segnato in aprile una contrazione del 3,9% su base annua, con la 17esima variazione negativa in 20 mesi).

Si discute molto di riforme strutturali, ma per quando sia difficile sostenere che le nostre economie sono dei modelli di virtù, non è lì che si trova la risposta. In primo luogo, perché le riforme hanno un impatto soprattutto sull'offerta (e il problema, vale la pena di ripeterlo, è la domanda); in secondo luogo, perché i benefici, se esistono, non si concretizzerebbero prima di quattro o cinque anni. E non c'è tempo: l'effetto cumulativo di cinque anni di crisi ora minaccia la coesione sociale e alimenta l'estremismo, soprattutto nei Paesi della periferia.
Una misura che potrebbe essere attuata nei prossimi mesi con effetti immediati, anche nei Paesi della periferia, è una forte redistribuzione del carico fiscale verso i redditi più alti e le rendite. La crescente disuguaglianza dei redditi degli ultimi tre decenni ha contribuito agli squilibri globali ed è, a mio parere, una delle cause profonde della crisi. Quest'ultima ha aggravato le cose: la combinazione di alta disoccupazione e risanamento dei conti pubblici ha compresso i redditi bassi, deprimendo sia il morale che la capacità di spendere delle famiglie.

A settembre, quando inizia la stagione delle leggi di bilancio, i governi della periferia (e non solo, la domanda privata è anemica anche in Germania) dovrebbero proporre ai loro parlamenti rettifiche del sistema impositivo. Rimanendo a saldi invariati, si dovrebbe spostare l'onere verso i redditi elevati e, soprattutto dove l'evasione rende il reddito un indicatore imperfetto della ricchezza, su patrimoni e consumi di lusso (in questo quadro, una rimodulazione dell'Iva potrebbe dare risultati interessanti).
Il maggior gettito dovrebbe sostenere i redditi medio bassi, e ridurre il cuneo fiscale per le imprese. Se l'azione ridistributiva fosse coordinata a livello europeo, inoltre, si ridurrebbe il rischio di concorrenza fiscale tra Paesi. Oltre a rispondere a criteri di giustizia, nella congiuntura attuale questo sarebbe efficace per sostenere consumi, e investimenti. Per avere effetti macroeconomici significativi, ovviamente, il ribilanciamento dovrebbe essere non cosmetico, e avere un impatto visibile sui redditi. La lotta alla diseguaglianza è ancora più importante quando i vincoli esterni impediscono le classiche politiche keynesiane di sostegno della domanda.

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