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Questo articolo è stato pubblicato il 03 luglio 2013 alle ore 06:48.
L'ultima modifica è del 03 luglio 2013 alle ore 07:02.

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Perché il quantitative easing adottato negli Usa è stato accompagnato da stabilità dei prezzi? O, come spesso sento, «perché il fatto che la Fed abbia stampato tanta moneta non ha provocato un'inflazione più alta?». I precedenti mostrano che una rapida crescita della massa monetaria alimenta l'inflazione. Lo si è visto nel caso dell'iperinflazione in Germania negli anni 20 e in America Latina negli anni 80. Ma anche spostamenti meno clamorosi dell'incremento della massa monetaria negli Usa si sono tradotti in fiammate inflattive: negli anni 70, l'offerta di moneta negli Usa aumentò al ritmo medio annuo del 9,6 per cento e l'inflazione fu in media del 7,4, un record rispetto ai 50 anni precedenti.
Negli anni 90, la crescita media annua della massa monetaria fu di appena il 3,9 per cento e il tasso medio di inflazione non andò oltre il 2,9. È per questo che l'assenza di qualsiasi reazione inflattiva al piano di acquisto titoli da parte della Fed lascia perplessi. Ma le perplessità svaniscono se ci rendiamo conto che il quantitative easing non è la stessa cosa che "stampare moneta" o incrementare la massa monetaria.

La massa monetaria maggiormente legata all'inflazione è composta prevalentemente dai depositi che imprese e famiglie conservano presso le banche. Tradizionalmente, maggiori acquisti di titoli da parte della Fed hanno determinato una crescita più rapida di questa massa. Ma un cambiamento di fondo delle regole della Fed, introdotto nel 2008, ha spezzato il legame fra acquisto di titoli e dimensioni della massa monetaria, consentendo alla Banca centrale Usa di fare incetta di titoli senza produrre un aumento della massa monetaria (e dell'inflazione).
Il legame fra acquisti di titoli e massa monetaria dipende dal ruolo delle "riserve eccedentarie" delle banche commerciali. Quando la Fed acquista buoni del Tesoro o altre attività, come titoli garantiti da ipoteca, crea "riserve" per le banche commerciali, che queste ultime depositano presso la Fed. Le banche sono obbligate a tenere riserve per un ammontare pari a una quota dei depositi.

Dal momento che le riserve obbligatorie prima del 2008 non fruttavano interesse, le banche commerciali erano incentivate a prestare a famiglie e imprese fino a che la crescita dei depositi che ne risultava non consumava le riserve. E l'incremento dei depositi presso le banche corrispondeva a un incremento della massa monetaria rilevante. Se le banche prestano di più, famiglie e imprese sono in grado di spendere di più, e questo aumento della spesa significa un Pil nominale (produzione ai prezzi di mercato) più alto. Una parte dell'incremento del Pil nominale assume la forma di un Pil reale più alto, mentre il resto si manifesta sotto forma di inflazione: è per questo che gli acquisti di titoli da parte della Fed storicamente hanno fatto aumentare la massa monetaria (e l'inflazione). Il legame tra acquisti di titoli e crescita della massa monetaria si è modificato dopo il 2008, perché la Fed ha cominciato a pagare interessi sulle riserve eccedentarie. Il tasso di interesse su questi depositi sicuri e liquidi ha indotto le banche a mantenere le riserve presso la Fed, invece di prestare denaro e creare depositi per assorbire le maggiori riserve. Il risultato è che il volume di riserve detenute dalla Fed è aumentato in modo spettacolare, da meno di 2 miliardi di dollari nel 2008 a 1.800 miliardi oggi. Ma la nuova politica della Fed di pagare interessi sulle riserve ha impedito che la maggiore disponibilità di riserve determinasse una crescita più rapida dei depositi e una massa monetaria più grande.

Le dimensioni della massa monetaria in senso ampio (l'aggregato M2) sono cresciute a un ritmo medio di appena il 6,2 per cento l'anno dalla fine del 2008 alla fine del 2012. Mentre il Pil nominale aumenta, nell'arco di lunghi periodi di tempo, allo stesso ritmo della massa monetaria, con i tassi di interesse molto bassi e in calo le famiglie e gli istituti di credito dopo il 2008 si sono dimostrati disposti a tenersi più soldi rispetto al Pil nominale. Pertanto, mentre l'M2 è cresciuto di oltre il 6 per cento, il Pil nominale è aumentato di appena il 3,5 per cento e il deflatore del Pil solo dell'1,7. Non è sorprendente, quindi, che l'inflazione rimanga bassa, più bassa che in tutti i decenni dopo la fine della Seconda guerra mondiale. E non è sorprendente che il quantitative easing abbia fatto così poco per incrementare la spesa nominale e l'attività economica reale.

Il fatto che negli ultimi anni non ci sia stata un'inflazione significativa non significa che non crescerà in futuro. Quando famiglie e imprese incrementeranno la domanda di prestiti, le banche che dispongono di capitali adeguati potranno soddisfare questa domanda con nuovi prestiti senza dover fare i conti con i limiti che potrebbero derivare da riserve inadeguate. La conseguente crescita della spesa da parte di famiglie e imprese potrebbe inizialmente essere benvenuta, ma presto potrebbe trasformarsi in una sgradita fonte di inflazione. La Fed potrebbe limitare i prestiti che producono inflazione aumentando il tasso di interesse sulle riserve eccedentarie o usando le operazioni di mercato aperto per accrescere il tasso di interesse interbancario a breve.
Ma la Fed potrebbe esitare ad agire, o agire con forza insufficiente, per via del suo duplice mandato che le impone di provvedere alla stabilità dei prezzi ma anche all'occupazione. Un esito del genere è più probabile qualora dovessero persistere, anche in presenza di un aumento del tasso di inflazione, livelli di disoccupazione di lungo periodo e sottoccupazione elevati. È per questo motivo che gli investitori hanno ragione a temere un eventuale ritorno dell'inflazione.

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