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Questo articolo è stato pubblicato il 06 luglio 2013 alle ore 10:14.

L'enciclica Lumen fidei (Ansa)L'enciclica Lumen fidei (Ansa)

Il cieco Bartimeo (Mc 10,46-52) si affida al passaggio di Gesù, grida e per questo è rimproverato dai vicini, ma egli, lungi dal cedere, raddoppia la forza della sua voce. Tutti lo redarguiscono, tranne il figlio di Davide. Gesù si ferma, lo fa chiamare, gli domanda cosa vuole e lo guarisce per la sua fede. Bartimeo non si rassegna al suo destino di oscurità e Gesù vuole che il suo passare lasci tracce. Il primato dell'incontro è indiscusso; ed è anche per questo che a risanare non è solo e tanto Gesù quanto la fede stessa di chi si incontra con lui (cfr. Mc 5,33).

Nel Vangelo di Marco vi è un episodio in cui un padre supplica Gesù di guarire il proprio figlio preda di uno spirito muto che, quando entra in azione, dà luogo a manifestazioni che i moderni definirebbero epilettiche: il ragazzo schiuma, digrigna i denti, si irrigidisce. Il padre chiede aiuto a favore di una creatura incapace di farlo in proprio. Il Vangelo è pieno di grida di chi chiede la propria guarigione. Non però in questo episodio, dove il soggetto è colpito nella sua stessa capacità di domandare. Il mutismo del figlio obbliga il padre a parlare. Impotente a soccorrere in proprio, il genitore domanda aiuto ad altri. In un primo momento si rivolge ai discepoli di Gesù ma essi falliscono, allora interpella direttamente il Maestro; quest'ultimo gli risponde duramente, tacciando di incredulità la propria generazione. Nel dialogo successivo il padre, rivolgendosi al Maestro, dice: ""Ma se tu puoi qualcosa, abbi pietà di noi e aiutaci". Gesù gli disse: "Se tu puoi! Tutto è possibile a chi crede". Il padre del fanciullo disse ad alta voce: "Credo, aiuta la mia incredulità"". Dopo questo scambio di battute avviene la guarigione (Mc 9,14-29).

I discepoli non sono in grado di guarire, Gesù invece risana; ciò comporta che in lui è fortemente presente quanto nei suoi seguaci è latitante: la fede. A tal proposito Walter Kasper ha affermato: "Qui la fede viene considerata partecipazione all'onnipotenza di Dio e quindi come capacità di ridonare salute. Se teniamo presente lo sviluppo dei concetti del brano dovremmo convenire che soltanto Gesù è "colui che crede" e che solo in forza della sua "fede" è capace di sanare".

La non fede (apistia), o la "poca fede" (oligopistia, espressione cara a Matteo), sono esperienze costitutive del credente e del discepolo. Affermare che tutto è possibile a chi crede trasforma la non fede in componente interna all'atto di credere. L'aver alzato al massimo la forza e la portata della fede fa sì che l'incredulità sia presenza ineliminabile dell'esperienza di ogni credente che non sia Gesù. La fede comporta affidarsi a colui per cui ogni possibilità è effettivamente possibile. Questa stessa definizione consegna la fede a un ambito eminentemente pratico. L'atto del credere non sta nel riconoscimento di una verità affermata come tale ma razionalmente indimostrabile, esso è un atto risanante. La guarigione dipende dal credere: non sono azioni che si possono compiere in proprio. Non si tratta di pervenire a una meta che siamo in grado di conseguire in virtù di quanto è effettivamente in nostro potere. Non la si può raggiungere attraverso l'azione o la tecnica, vale a dire coi mezzi consueti in virtù dei quali si interviene sulle realtà modificabili.

Il fatto che a Dio nulla sia impossibile (cfr. Lc 1,37) trova corrispondenza nella fede. Tuttavia ciò costituisce nel contempo la massima sfida per il credente. Aver fede è essere convinti sia che a Dio e solo a lui nulla è impossibile sia che dal nostro credere dipenda il dischiudersi o meno di una determinata possibilità. L'apistia si colloca in una fede che, lungi dal presentarsi in prima istanza come dono di Dio, si prospetta come un atto umano che cerca di sforzare i confini del possibile. "Nulla è impossibile a chi crede" sarebbe espressione idolatrica se non fosse sorretta dalla presenza di un "non credere" inteso come momento intrinseco della vita di fede. Perché il credere sia davvero tale non vi può essere alcuna simmetria tra "nulla è impossibile a Dio" e "tutto è possibile a chi crede". Nella fede è sempre contenuta una dislocazione. Si è sicuri della potenza del credere solo nel momento in cui si afferma la propria impotenza e ci si affida ad Altri.
La forza della fede comporta riconoscere di non riuscire a ottenere in proprio quanto si desidera: occorre affidarsi.

La sua potenza comporta un'impotenza, perciò non è disgiungibile dalla speranza: la fede è "sostanza delle cose sperate" (cfr. Eb11,1). Trascritta nell'orizzonte del possibile, l'affermazione significa che si può sperare soltanto avendo fiducia e si può averla solo se il credere differisce da un ragionevole confidare. Parlando di Abramo, Paolo afferma: "egli ebbe fede sperando contro ogni speranza e così divenne padre di molti popoli" (Rm 4,18; cfr. Lumen fidei, n. 11). Colto in quest'ottica, il patriarca è per sempre il padre dei credenti. Per credere occorre aver fiducia che il possibile di Dio giunga a noi più reale del reale: "credo, aiuta la mia non fede (apistia)".

I Vangeli hanno attestato in modo definitivo i due passaggi che aprono alla fede: l'incontro e la chiamata. La fede cristiana comporta la memoria viva di Gesù che lungo le strade della Galilea e della Giudea incontra e chiama. Il credente vede l'esistenza terrena di Gesù come una testimonianza dell'azione di Dio che ci tocca da vicino: se il Padre ha agito in lui, Egli può operare anche nelle nostre vite. È consono al credere essere convinti che si è chiamati alla fede dalla memoria di Gesù. Lo stesso vale per l'incontro. Vissuto nella terra d'Israele nel primo secolo, Gesù fu incontrato da coloro che videro il suo volto, udirono la sua voce, toccarono le sue vesti e il suo corpo. Noi, come Paolo, non abbiamo conosciuto Gesù secondo la carne (2 Cor 5,16). La sua presenza per noi è legata tanto alla memoria espressa da quelle narrazioni quanto a quella di Gesù Cristo morto, risorto e veniente che trova nella Cena del Signore l'espressione liturgica più alta (cfr. Lumen fidei, n. 44). Parola ed eucaristia alimentano e sostanziano una fede consapevole di non poter incontrare Gesù Cristo in modo più pieno di quanto sia concesso a una presenza legata alla memoria e all'attesa (l'Enciclica parla della fede strettamente legata alla speranza come memoria futuri, n. 9).

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