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Questo articolo è stato pubblicato il 06 luglio 2013 alle ore 10:14.

L'enciclica Lumen fidei (Ansa)L'enciclica Lumen fidei (Ansa)

Incontro e chiamata sono le porte della fede, esse vanno vissute in maniera umile. Chi dichiara di aver incontrato in modo diretto Gesù nella sua vita, chi afferma di essere rinato in virtù di una chiamata resa evidenza palese, tramuta la fede in certezza mondana. L'umiltà del nascosto lascia allora il posto all'aggressività del manifesto. La conferma la si ha nella modalità dei rapporti interumani che derivano dal vivere la fede come evidenza certa ed esperienza garantita. La fede nata da una sedicente immediatezza cade così, per altra via, negli sviamenti propri della devozione religiosa legata all'istituzione o, peggio, alla logica settaria del gruppo: nell'uno e nell'altro caso si è dominati da un'appartenenza che non può evitare la contrapposizione.

Porre la fede nell'ambito dell'incontro introduce, accanto alla presenza, una realtà che, pur essendo antitetica a essa, non ne costituisce la pura negazione: la persona di fede non vive l'assenza, sperimenta l'abbandono. Nel grido di Gesù sulla croce: "Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato" (Mt 27,46; Mc 15,34; Sal 22,2; cfr. per contro l'interpretazione offerta in Lumen fidei, n. 56), il "Dio mio" - aggettivo che dice una relazione, non un possesso - è il presupposto per affermare la serietà dell'essere abbandonati. Un Dio che semplicemente è, non abbandona mai. Ci sono dolori che sono propri di chi crede. Il solitario sperimenta l'assenza, l'amante tradito patisce l'abbandono. Gesù e prima di lui Israele hanno inscritto questa dinamica dell'abbandono nella vita di fede. La fiducia sta nel credere, anche quando si è nell'abbandono, che all'incontro sia riservata la parola ultima. È dato di avere una simile fede?

Non di rado, di fronte allo scarso ardore o all'aperta fiacchezza della fede dei credenti e alla situazione desolata in cui giace il mondo, si sente ripetere l'interrogativo del Vangelo di Luca: "Ma il Figlio dell'uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?" (Lc 18,8). Si tratta di una domanda propria del credente. La sua formulazione non lascia adito a equivoci. L'interrogativo sulla permanenza della fede è davvero tale, vale a dire resta aperto. Esso, però, sorge soltanto all'interno di un presupposto che rappresenta il contenuto più alto e arduo della fede evangelica: la venuta del Figlio dell'uomo alla fine dei tempi. Se la storia del buon annuncio evangelico fosse giunta alla sua effettiva estinzione, ciò comporterebbe in primo luogo lo svanire della possibilità stessa della venuta del Signore. Il Figlio dell'uomo semplicemente non verrebbe mai. Fuori della fede non vi è alcun riferimento a una fine dei tempi contraddistinta non da una estinzione lenta o brusca di quanto c'è, bensì da un sopraggiungere di quanto ancora non è presente. L'interrogativo sul permanere della fede è, per forza di cose, interno alla fede stessa.

L'espressione di Luca trova corrispondenza nel tenace, provato permanere del piccolo numero di credenti non ingannati di cui parla Matteo: "Sorgeranno molti falsi profeti e inganneranno molti; per il dilagare dell'iniquità, l'amore di molti si raffredderà. Ma chi persevererà fino alla fine sarà salvo" (Mt 24,13). La presenza di un "resto" confuta il totale estinguersi della fede. Nel primo Vangelo il restringimento del nucleo dei credenti ha come contrappeso l'allargamento dell'annuncio evangelico; subito dopo infatti si legge: "Frattanto questo vangelo del regno sarà annunziato in tutto il mondo, perché ne sia resa testimonianza a tutte le genti; e allora verrà la fine" (Mt 24,14). Affermazione potente che ha influito sulla storia del mondo. Lungo i secoli essa ha sospinto molti credenti ad annunciare il vangelo a ogni latitudine e longitudine. Ciò era necessario perché sopraggiungesse il compimento del regno di Dio. Si è trattato di un impulso inesauribile che ha fatto travalicare monti, disboscare foreste, solcare oceani suscitando fede e nello stesso tempo collegandosi a egemonie secolari che hanno devastato intere civiltà.

I due volti si rimandano l'un l'altro: la diffusione della buona novella del regno è il luogo massimo per misurare la presenza e la debolezza del credere. Si può essere più radicali: è il punto archimedeo per interrogarsi sulla costitutiva impotenza della fede: "credo, aiuta la mia incredulità" (Mc 9,24). Domanda che nasce solo se si hanno fissi davanti agli occhi sia il regno che viene sia i segni immensi di irredenzione sparsi ovunque in questo nostro mondo. L'interrogativo se il Figlio dell'uomo nel suo venire troverà fede sulla terra non è espressione di un dubbio relativo al credere, né sostiene che l'ipotesi dell'esistenza o dell'inesistenza di Dio si diano alla pari. È una domanda interna al credere che consegna la nostra fede alla piccolezza svelandone l'impotenza e trovando in ciò un motivo profondo della sua stessa ragion d'essere.

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