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Questo articolo è stato pubblicato il 05 luglio 2013 alle ore 07:04.
L'ultima modifica è del 05 luglio 2013 alle ore 08:08.

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«Sia ben chiaro: non possiamo creare in alcuni Governi l'illusione di poter non far niente pensando che l'Europa verrà loro in aiuto. Non c'è nessuna Europa, ci sono solo Stati membri responsabili delle rispettive politiche sociali». Nota per la sua brutale franchezza, Dalia Grybouskaite, il presidente della Lituania dal primo luglio alla guida semestrale dell'Ue, ancora una volta non si è smentita.
L'altro ieri, al termine del vertice europeo sul lavoro ospitato da Angela Merkel a Berlino, ha detto ad alta voce quello che da tempo tutti sanno ma non osano dire. Mentre Angela, sorridente, recitava la parte del cancelliere "buono" sciorinando le cifre degli aiuti Ue a giovani disoccupati e a piccolo e medie imprese a corto di credito, Dalia vestiva i panni del presidente "cattivo", ricordando che l'Europa non intende fare regali a nessuno, meno che mai a chi non faccia i propri compiti a casa.
Per molti aspetti niente di nuovo, se non forse l'inversione dei ruoli tra le due donne. E la conferma che, dietro il cauto allentamento del rigore degli ultimi tempi, il sorriso dell'Europa, quando c'è, ostenta sempre denti d'acciaio. Eppure i tempi sarebbero più che maturi non per operazioni-tampone o cosmetico-diversive ma per una vera svolta: dettata non da gesti di solidarietà tardiva verso i Paesi provati dagli eccessi di austerità (tra l'altro controproducenti ai fini del controllo di deficit e debiti) ma dalla generale consapevolezza che la capacità di sopportazione sembra aver raggiunto il limite.

Il Portogallo non è mai stato la Grecia: era l'allievo modello, il caso di scuola per dimostrare che, per quanto amarissima, la medicina era accettabile e anche efficace. Pubblicità ingannevole. A Lisbona ministri in fuga, il Governo rischia di cadere, il consenso nel Paese si è dileguato. L'ultimo rapporto dell'Fmi dice che il debito rischia di toccare il 130% nel 2015, la ripresa non si vede, il recupero di competitività è molto limitato. In queste condizioni il rispetto degli impegni presi nel 2011 con l'Europa in cambio del prestito da 78 miliardi diventa molto problematico. Situazione altrettanto tesa ad Atene dove le riforme vanno a rilento, i tagli nel settore pubblico appaiono ingestibili, non si esclude una nuova ristrutturazione del debito (ma dopo le elezioni tedesche del 22 settembre) né un rinvio nell'erogazione della prossima tranche di aiuti Ue. A Cipro il calvario sta per cominciare. La normalizzazione del settore bancario in Spagna è ancora di là da venire.
Dopo un anno di quiete propiziato dalla politica della Bce di Mario Draghi, i mercati dunque sono di nuovo nervosi. La fine annunciata della politica espansiva della Fed aggiunge incertezze alla calda estate che promette di scuotere un'eurozona tornata fragile, un'appetibile preda della speculazione. La riunione dei ministri dell'Eurogruppo lunedì a Bruxelles cercherà di metterci una pezza, probabilmente giocando su nuove dilazioni per Grecia e Portogallo. «La fatica del consolidamento fiscale può esplodere improvvisamente. Allora la tentazione in questi Paesi di tornare indietro potrebbe diventare molto forte» ha avvertito martedì a Bruxelles Pier Carlo Padoan, il numero 2 dell'Ocse. Sarebbe un peccato, ha aggiunto, «perché hanno fatto molto e rischiano di perdere molto se non faranno l'ultimo miglio».

Ci vorrebbe un'Europa benevola, sensibile all'esasperazione sociale che crea, preoccupata dai contraccolpi sulla tenuta della democrazia della sue politiche che viaggiano in apnea di consenso popolare. Invece, anche quando si decide a fare qualcosa, tende sempre a fare il minimo, gonfiandolo di aspettative irrealistiche, dunque prima o poi fonti di nuove frustrazioni, di nuovo euroscetticismo.
Gli aiuti alla disoccupazione giovanile sono un segnale positivo ma insufficiente, una goccia nel mare: senza seri stimoli alla crescita economica (che non ci saranno perché ognuno deve rimettersi in piedi da solo), il problema resterà, drammatico ma irrisolto. Lo stesso vale per la cosiddetta flessibilità nella valutazione degli investimenti produttivi. Meglio di niente, certo, ma ancora un gioco degli specchi: finché il deficit italiano resterà sotto il 3%, ci saranno margini per cofinanziare i fondi strutturali Ue e relativi progetti di investimento sotto l'attenta supervisione di Bruxelles. Ma quei margini dipenderanno solo dalla virtù italiana: più basso il deficit, maggiori i margini. Ci si riuscirà con la recessione che non passa? E con il debito che dall'anno prossimo dovrà cominciare ad essere ridotto come impone il fiscal compact?
Ogni tanto la musica europea appare più gradevole e meno stridente. Se la si ascolta bene, però, si scopre che il suo spartito non cambia molto. Di questo passo c'è il rischio che prima o poi qualcuno abbandoni la sala.

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