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Questo articolo è stato pubblicato il 06 agosto 2013 alle ore 07:31.

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Il rischio: né guerra né pace

Stabilito che il governo Letta non cadrà in agosto sotto le macerie del berlusconismo, ci sono almeno due punti da chiarire in fretta. Due punti che s'intrecciano fra loro come tutti gli aspetti di questa confusa vicenda. Il primo riguarda il rischio che il governo delle larghe intese, pur sopravvivendo, sia sottoposto a un processo di lento e inesorabile logoramento. Il secondo investe lo stesso Berlusconi e la sua speranza (o pretesa) di restare sulla scena nonostante la condanna.

La prospettiva di un governo in apparenza salvo, ma in realtà minato alla radice dalla crescente incomunicabilità fra i partner è ben presente a Palazzo Chigi. Giusto chiedere garanzie al Pdl e al Pd, a patto di non credere davvero che basti una formale quanto generica promessa di lealtà per evitare gli scogli di settembre. Meglio affidarsi alle cifre della Banca d'Italia e a quel vago sentore di ripresa su cui hanno posto l'accento il ministro Saccomanni e il governatore Visco. Letta fa bene a puntare i piedi. Purtroppo quando afferma «non mi farò logorare», vuol dire che un certo logorìo è già in atto. Eppure questa maggioranza continua a non avere alternative. Non c'è un'intesa fra Pd e Cinque Stelle nel novero delle cose possibili e Grillo ha voluto ricordarlo a quanti, nel variegato campo della sinistra, non vogliono arrendersi alla realtà.

D'altra parte, si può escludere che il premier stia adombrando fra le righe le sue dimissioni. Al contrario, la frase va intesa come un annuncio di battaglia contro i riottosi, oltre che come promessa di un rinnovato impegno sui problemi in sospeso. E ce ne sono: dalla grana Imu al nodo dell'Iva, dalla questione del finanziamento ai partiti all'eterno mistero della legge elettorale. Proprio quest'ultimo punto diventerà cruciale entro un paio di mesi. Tutti coloro che guardano alle prossime elezioni – e magari le vedono non tanto lontane – hanno bisogno di una riforma in tempi certi. Ma quale? E con quale maggioranza? Dovranno per forza essere Pd e Pdl i contraenti dell'accordo, a costo di alimentare la polemica dei grillini. Nel merito, però, siamo ancora nel vago. C'è sul tavolo un'ipotesi di Luciano Violante, ma nessuno si è ancora pronunciato con chiarezza. Tuttavia rifiutare il logoramento significa obbligare i partiti a uscire dal piccolo cabotaggio, dal gioco tattico a rimpiattino. È quello a cui dovrà obbligarli Letta. Poi, certo, ognuno si assumerà la proprie responsabilità.

Quanto a Berlusconi, è significativo che i capigruppo Schifani e Brunetta si siano presentati al Quirinale con spirito costruttivo, consapevoli che la stabilità e il rilancio del governo è il primo pensiero del capo dello Stato. Quanto al tema che sta veramente a cuore al Pdl, la cosiddetta «agibilità politica» di Berlusconi (traduzione: come permettere al leader di occuparsi di politica nonostante la condanna), non sembra che ci sia una soluzione a portata di mano. Ovviamente esclusa la grazia, pochi pensano che sia compito del capo dello Stato entrare in questa o quella interpretazione della legge Severino. O farsi coinvolgere oggi in altre forme nella vicenda.
A rigor di logica, e considerando che lo scenario di «Berlusconi in galera» è una forma di pressione per ottenere qualche privilegio, la strada di fronte all'ex premier condannato è una sola: accettare le conseguenze della Cassazione, facendo passare in fretta l'anno della pena. Non in carcere, naturalmente, ma valutando che i servizi sociali al dunque offrono un maggior grado di libertà. Al tempo stesso è interesse del Pdl non meno che del Pd far maturare un accordo in Parlamento sulla riforma della giustizia. Una riforma equa, ovviamente, non una legge «ad personam» mascherata. E di sicuro non potrebbe essere Berlusconi a negoziarla. Una volta fatta la riforma, ci sarebbe spazio per chiudere con un'amnistia i carichi di una lunga stagione.

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