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Questo articolo è stato pubblicato il 17 agosto 2013 alle ore 10:03.

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Nella luce del mattino, dopo il massacro al Cairo, tutto è apparso chiaro e brutale come la voce della storia che invita tutti a non prenderci in giro, come suggeriva da Berlino Christopher Isherwood alla vigilia dell'ascesa del Terzo Reich: la primavera araba finisce in una strage, in corso non c'è nessuna rivoluzione.

Quel che accade è invece un tentativo di restaurazione che neppure Mubarak avrebbe osato attuare con questa sanguinosa determinazione. Le rivoluzioni sono un'altra cosa, implicano utopie, nuove visioni del mondo, dei rapporti politici, sociali, economici: lasciamo stare, dunque, Robespierre, Lenin e anche il già vetusto Imam Khomeini.
Adesso comincia un capitolo nuovo per tutta la regione.

Ma in vista, nell'entourage dei generali, non c'è un progetto, o almeno non è evidente se non nell'obiettivo di liquidare i Fratelli Musulmani e la loro leadership, finora rivelatasi incapace di qualsiasi realpolitik scegliendo la via del martirio, preludio ai giorni della rabbia, della vendetta e in parte della lotta armata.

È stato evocato in queste settimane il rischio di una deriva algerina: ma le cose sono molto diverse rispetto a vent'anni fa quando i generali sradicatori cancellarono con un colpo di stato la vittoria elettorale degli islamici.

Allora l'Algeria venne sigillata a ogni influenza esterna, i testimoni, cioè i media, venivano tenuti alla larga, non ci fu il temuto contagio della guerriglia ai Paesi confinanti, dove del resto a quei tempi era ben saldo il sistema degli autocrati. Le foto dei morti ammazzati negli obitori di Algeri, con le teste mozzate e gli arti ricuciti con il filo di ferro, sono rimaste negli archivi dei reporter e mai pubblicate.

Oggi tutto è cambiato, i massacri avvengono in diretta sulle tv o sul web. I generali non possono chiudere l'Egitto e buttare la chiave perché la sopravvivenza del Cairo dipende dall'aiuto esterno, soprattutto arabo: l'iniezione di liquidità dal Golfo dopo il golpe militare ha salvato le esauste riserve valutarie. L'Egitto non ha il petrolio e il gas dell'Algeria, è un Paese alla fame. L'esitazione americana a sospendere gli aiuti militari alle forze armate egiziane è una mossa dettata da due ragioni: una è quella di tenere in mano una leva negoziale sui generali, l'altra di evitare che si rivolgano ad altre potenze protettrici, come Russia o Cina. L'Egitto-caserma, nonostante i militari controllino il 30% dell'economia, da solo non ce la fa.

L'effetto domino della crisi egiziana è in realtà retroattivo. Sulla Sponda Sud si è aperto un vuoto geopolitico enorme prodotto dalle voragini precedenti scavate dall'inutile e controproducente guerra americana in Iraq nel 2003, uno stato certificato soltanto sulla carta, con conflitti etnici e settari che da un decennio dividono e inquinano tutta la regione: sciiti contro sunniti, salafiti e jihadisti contro curdi e cristiani.

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