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Questo articolo è stato pubblicato il 01 settembre 2013 alle ore 15:08.

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Ora si dirà che ieri, davanti alla Casa Bianca, abbiamo assistito a un altro episodio del declino americano: la più grande potenza militare che rinuncia a punire un tiranno che lei stessa aveva accusato di barbarie verso il suo popolo.
È invece stata una buona lezione di democrazia, anche se piuttosto tardiva. Bashar Assad e Putin probabilmente non la capiranno ma salva l'anima dell'America e forse dell'Occidente intero.

L'intervento militare è ancora probabile ma avverrà dopo che il Congresso l'avrà approvato, sebbene il presidente abbia poteri costituzionali per ordinarlo da solo. È possibile che nel frattempo il Consiglio di sicurezza Onu avrà ascoltato il rapporto dei suoi ispettori e il mondo si sarà fatto del massacro in Siria, un'idea più completa. Ed è possibile che, sotto la minaccia del bombardamento, si faccia strada un'ipotesi negoziale. Ciò che conta è che Barack Obama non abbia seguito la stessa strada militare, automatica e banale, dei suoi predecessori ma sia stato ad ascoltare il mondo attorno a se. È quello che cinque anni fa la sua presidenza aveva promesso. E che mantenga qualche distanza dalle solite paludi del Medio Oriente.
Per i combattenti siriani dell'una e dell'altra parte, Israele è l'arma di ultima istanza. Per le milizie islamiste opposte al regime di Damasco, coinvolgerlo sarebbe il compimento del loro sogno di jihad totale. Se per Bashar Assad le cose si mettessero male, spingere Hezbollah ad attaccare Israele darebbe il via al grande caos nel quale ogni cosa può accadere. Se John Kerry avesse detto che bisogna bombardare Damasco anche per garantire la sicurezza israeliana, l'America avrebbe chiuso con l'Islam dal Marocco all'Indonesia.
Se lo scontro civile siriano diventerà una grande guerra, non dipenderà da un bombardamento americano ma da quello che Israele vorrà o sarà costretto a fare. Arma reale o della propaganda, Israele è il convitato di pietra di tutti i conflitti del Medio Oriente. Anche dei pochi nei quali non muove un dito. Il livello della sua partecipazione rende una crisi più o meno grave, più o meno internazionale, più o meno evento mediatico globale. Le vittime che provoca Israele e le vittime israeliane contano sempre più delle altre.

Per gli arabi è il "nemico sionista" che determina l'indifferenza o la mobilitazione delle piazze. «I militari sono al servizio dei sionisti», dicevano il mese scorso al Cairo i Fratelli musulmani; per i sostenitori del generale al-Sisi, era l'ex presidente Morsi che stava «vendendo l'Egitto agli ebrei». Entrambi convinti che avere Israele contro serva alla loro causa più di ogni altra cosa.
«Gli Stati Uniti non hanno opzioni militari capaci di fermare il massacro siriano o di far cadere Bashar Assad. Non a un prezzo politico accettabile». È una considerazione ovvia. Ma se lo dice Amos Yadlin, l'ex capo dell'intelligence militare israeliano, è una certezza dalla quale non ha potuto prescindere nemmeno Barack Obama. Mossad, Shin Bet, e servizi militari sono la tribuna più informata del conflitto siriano. La fonte di una parte importante delle prove che John Kerry diceva di avere riguardo all'uso dei gas, è probabilmente israeliana.
Diversamente dal resto del mondo, gli israeliani sono "altamente convinti" che Assad, l'Iran e nemmeno Hezbollah libanese non cercheranno di vendicarsi, allargando il conflitto. Purché il bombardamento americano, se avverrà, sia "limitato nel tempo e negli obiettivi". Secondo le stime israeliane, il bombardamento di Jobar è stato un "infortunio" del regime. Non sarebbe la prima volta che l'esercito siriano usa armi chimiche contro gli insorti. Se ne servirebbero in modo limitato e con gas "sporchi", a bassa efficacia, ogni volta che non riescono a riconquistare con le armi convenzionali le posizioni strategiche tenute dalle milizie avversarie. Per errore o per uno scontro interno al regime, questa volta chi ha usato i gas, ha esagerato.

È per questa ragione che Bashar e i suoi alleati potrebbero anche accettare un bombardamento americano "simbolico" senza allargare il conflitto oltre quei limiti che lo renderebbero incontrollabile per tutti. Un attacco di quel genere servirebbe per "ripristinare la linea rossa": per riaffermare quel tabù sull'uso delle armi chimiche, che vogliono gli americani ed è utile anche per gli israeliani, così vicini ai campi di battaglia e agli arsenali di armi non convenzionali siriani. Questo servirebbe anche agli altri per tornare alla situazione precedente all'"infortunio" e ai morti di Jobar. Cioè a riprendere il loro massacro senza scuotere la sensibilità internazionale.
C'è un'altra ragione che sembra un paradosso, considerando la crisi in corso e la mobilitazione missilistica americana. Con o senza Bashar Assad, è il giudizio degli israeliani, la sopravvivenza del regime siriano è un interesse strategico americano. Lo è anche di Israele: Damasco è sempre stato il "nemico affidabile" che una Siria caoticamente liberata e islamica cesserebbe di essere. Nemmeno sauditi e turchi sarebbero capaci di controllare le milizie salafite che a volte finanziano. Bashar Assad, gli iraniani, Hezbollah: anche loro sanno di avere negli Stati Uniti e in Israele un nemico necessario lo sanno. Son esercitazioni di realismo che il discorso di Obama potrebbe rafforzare e trasformare in una via d'uscita politica del massacro siriano.

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