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Questo articolo è stato pubblicato il 04 settembre 2013 alle ore 06:43.

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«Una delle contraddizioni fondamentali è questa: che mentre la vita economica ha come premessa necessaria l'internazionalismo o meglio il cosmopolitismo, la vita statale si è sempre più sviluppata nel senso del "nazionalismo" del "bastare a sé stessi"». Chi scrive è Antonio Gramsci (Quaderno 17), la data è il 1933; lo scenario in cui si colloca il pensiero di Gramsci è quello delle grandi trasformazioni seguite alla crisi del 1929-30.

Oggi viviamo il tempo della globalizzazione e i processi di cui Antonio Gramsci aveva intuito la portata hanno ormai dispiegato la loro potenza ben oltre l'egemonia del fordismo e del modello americano. Nel tempo del capitalismo finanziario globale la crisi democratica legata alla perdita di sovranità degli Stati sembra essere giunta a un punto al limite di rottura.

Non è un caso che l'Europa sia l'epicentro di questa crisi. Non deve stupire che in questa parte del mondo che ha goduto del beneficio di una lunga stagione di democrazia e di benessere si avverta oggi più acuto il senso di una crisi profonda e senza prospettive. Anzitutto perché sembra essere caduta la forza della politica, la sua capacità di incidere sui processi reali, di garantire diritti e opportunità, di promuovere percorsi di emancipazione personale e collettiva. La moneta unica ha messo in evidenza che senza un coordinamento effettivo delle politiche economiche di sviluppo, senza un'armonizzazione delle regole fiscali e sociali, senza un significativo bilancio federale dell'Unione, anziché essere l'euro il fondamento di una più forte integrazione, esso ha finito per accentuare gli squilibri e le diseguaglianze fra aree con diversi livelli di produttività e di competitività. Insomma, una vendetta della storia: perché nella storia sono gli Stati - cioè la politica - che hanno battuto moneta e non sono le monete che hanno creato gli Stati.

Ma nell'Unione europea di questi anni la politica è mancata. Ci si è illusi che la si potesse sostituire con un "governo delle regole" (percentuali, criteri, sanzioni). Ma le regole, come disse Romano Prodi, sono stupide se non c'è la flessibilità e la libertà di una guida politica autonoma e legittimata in grado di applicarle con intelligenza. Non è un caso che il governo delle regole e il dogma della stabilità monetaria siano sfociati nel dominio di quella ideologia dell'austerità che appare, oggi, un ostacolo alla ripresa economica e dell'occupazione. Ma, soprattutto, in questo modo si è accentuato il carattere tecnocratico della governance europea, alimentando sempre di più un senso di distanza e ostilità nelle opinioni pubbliche di molti paesi. Tecnocrazia e populismo si presentano così come le due facce della crisi democratica in Europa.

L'Europa non ha mai vissuto una crisi così profonda nei lunghi anni della sua storia. Ma, come in altri momenti della vicenda europea, proprio la crisi può essere l'occasione per un salto di qualità. Certo, per uscirne bisogna innanzitutto cambiare le politiche dell'Unione. Questo significa realizzare quel riorientamento dell'azione comune verso la crescita e l'occupazione di cui ormai si parla anche per l'impulso di diversi governi a guida progressista, a cominciare da quello francese e, da ultimo, con il contributo di Enrico Letta. Tutto questo comporta un meccanismo davvero efficace di solidarietà di fronte al debito sovrano, che consenta di abbattere i tassi di interesse e di contenere e piegare le forze speculative che operano sul mercato. Occorre interpretare in modo più flessibile e intelligente il patto fiscale, non impedendo investimenti che sono necessari per il rilancio economico e la ripresa della competitività. Bisogna, infine, rafforzare il bilancio dell'Unione, perché solo un bilancio federale adeguato può consentire di ridurre gli squilibri, di armonizzare la crescita e di orientarla verso obiettivi innovativi sul piano della ricerca e sul piano ambientale.

Eppure questi cambiamenti così necessari appaiono non solo difficili, ma precari se affidati esclusivamente a una governance intergovernativa. Per questo c'è bisogno di un cambiamento più profondo che investa la politica. C'è bisogno, cioè, di una "battaglia politica" europea in cui si confrontino diverse visioni del futuro del continente e si misurino soggetti politici europei.

Allora il confronto non sarà più fra "Europa sì" e "Europa no", dove per Europa si intende quella che c'è, con le sue regole inviolabili e la sua ideologia dell'austerità, i suoi dogmi monetari, la sua predicazione del taglio della spesa sociale, la sua incapacità di fronteggiare la speculazione finanziaria. La sfida riguarderà l'Europa che vogliamo e lo sforzo dei progressisti non può che essere quello di ridare slancio all'ideale europeista, legandolo a un progetto di crescita, di piena occupazione e di progresso. È possibile, questo, senza che i partiti si pongano in un'ottica che vada al di là della dimensione strettamente nazionale? Il Partito socialista europeo ha approvato a fine giugno a Sofia il suo programma fondamentale. È un passo in avanti importante e si tratta di un testo ricco sul piano dei riferimenti al lavoro e alla giustizia sociale, ma anche alla partecipazione dei cittadini e alla trasparenza dei processi decisionali. Tuttavia, sembra a me ancora debole l'indicazione di un progetto politico per l'Europa.Fatica, per le residue resistenze nazionali, ad affermarsi l'idea di un'Europa federale, che è l'unica soluzione per una accelerazione democratica dell'integrazione. Non per creare il temuto superstato europeo, ma per evitare che le decisioni siano nelle mani di una reale e potente "supertecnocrazia" che finisce per dipendere quasi esclusivamente dai governi degli Stati più forti.

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