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Questo articolo è stato pubblicato il 06 settembre 2013 alle ore 08:56.

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Può darsi che davvero la Casa Bianca di Obama stia pensando di bombardare la Siria per difendere (anche) un principio - il bando alle armi chimiche contro i civili - oltre che la credibilità dell'America e il proprio ruolo nel mondo.

M a la realtà è che i modi in cui lo sta facendo rischiano seriamente di mettere in crisi non solo quel principio che sostiene di voler difendere, ma addirittura l'architettura istituzionale che ne ha reso possibile l'affermazione, oltre alla speranza di una sua tutela sempre più efficace: l'idea stessa di "comunità internazionale". È un paradosso che il presidente americano di gran lunga più popolare fuori dagli Usa dai tempi di John Fitzgerald Kennedy, l'uomo in cui sono state riposte gigantesche aspettative affinché l'America accettasse di abbandonare l'unipolarismo soffice di Clinton e quello rude di George W. Bush per aderire all'idea di una governance multilaterale del mondo (più consona alla mutata distribuzione della potenza nel sistema internazionale, e quindi più realistica), si ritrovi oggi a essere il principale responsabile di aver spostato le lancette della storia indietro di 25 anni, a prima della caduta del Muro di Berlino.

Il gelo del vertice di San Pietroburgo tra Russia e Stati Uniti ci riporta, in realtà, ai momenti peggiori della Guerra Fredda, ai tempi della crisi di Cuba. Con una differenza però: che quando Kennedy si rivolgeva ai cittadini americani (e a quelli di tutto il mondo libero), spiegando che il posizionamento di batterie missilistiche sovietiche nell'isola del Caribe metteva in pericolo la sicurezza nazionale degli Usa e l'equilibrio mondiale, aveva ragioni da vendere. Mentre, quando sostiene che lasciare senza una punizione militare il regime di Assad per quello di cui è sospettato metterebbe a repentaglio la sicurezza dell'America, Obama esagera deliberatamente. Semmai è vero che il non prendere sul serio le ragioni russe - che un attacco non autorizzato dall'Onu si configurerebbe come un'aggressione, da cui la Siria avrebbe diritto di difendersi ricorrendo a ogni mezzo lecito, compreso l'aiuto dei suoi alleati - è un atteggiamento autolesionistico. E a chi obietta che la Russia agisce per cinico interesse, è fin troppo facile replicare che lo fa anche con argomenti giuridici difficilmente contestabili.

In realtà è molto più pericolosa per la pace internazionale, per la sicurezza dell'America e dei suoi alleati, per l'intero Mediterraneo e tutto il Medio Oriente - oltre che per il martoriato popolo siriano, evidentemente - l'ostinazione solitaria con cui l'America sta procedendo in questi giorni. La pretesa che un Paese possa ergersi a investigatore infallibile, giudice inappellabile ed esecutore implacabile dei principi di giustizia internazionale non è solo priva di qualunque base giuridica e di dubbia giustificazione etica: ma è anche, e drammaticamente, pericolosa per la sua inconsistenza rispetto alla realtà. Dimentica che l'America di Obama è assai meno potente di quella di George W. Bush, che la Russia e la Cina di oggi (ma persino il Brasile e l'India) hanno infinitamente più peso di quanto ne avessero negli anni 90 o nel decennio scorso.

In una simile mutata situazione, in cui l'Occidente e l'America assistono a una consistente riduzione della propria potenza, a una perdita di quote di controllo del sistema internazionale, non c'è nulla di più contrario e dannoso per l'interesse nazionale americano e dell'Occidente (oltre che per i principi che riteniamo di sostenere e incarnare meglio di altri) che agire contro tutti, in spregio del diritto e delle consuetudini internazionali, distruggendo il proprio prestigio, sfidando i rivali e ignorando gli alleati. Ed è esattamente quello che Obama sta facendo sul dossier siriano.
È difficile credere che davvero la Casa Bianca possa non accorgersi di come il suo modo di agire stia isolando l'America più di quanto fosse riuscito al tanto criticato e inviso George W., proprio quando l'America ne avrebbe meno bisogno.

Ma forse per capirlo occorre guardare anche alle nomine nei posti chiave della politica estera di questa seconda amministrazione: in particolare alla figura della consigliera per la Sicurezza Nazionale Susan Rice che, nel suo ultimo discorso come Rappresentante permanente degli Stati Uniti nel Consiglio di Sicurezza Onu, bollò con parole durissime i veti di Russia e Cina alle bozze di risoluzioni di condanna nei confronti del regime di Assad. La sensazione è che il suo ruolo sia stato determinante nello spingere Obama a tracciare l'infausta "linea rossa" (relativa all'impiego di armi chimiche) oltre cui l'America sarebbe intervenuta: la stessa linea rossa che ora sembra rappresentare un vincolo pericolosissimo per il presidente.

La politica estera Usa è sempre stata un amalgama di principi e interessi: come per tutte le nazioni, ma con tratti peculiari e accentuati dalla natura della Repubblica sorta a difesa della "terra dei liberi e patria dei valorosi". Spesso questa commistione ha fornito il destro agli attacchi dei nemici dell'America. Assai raramente, come in questi giorni - in cui Turchia, Arabia e Qatar rappresentano con la Francia la riedizione in sedicesimo della "coalition of willing" di Bush jr. - è apparsa così malaccorta e confusa, arrogante e incoerente, da rendere difficile il sostegno anche da parte degli amici.

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