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Questo articolo è stato pubblicato il 27 settembre 2013 alle ore 06:50.

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Pubblichiamo stralci del primo e dell'ultimo capitolo del libro-inchiesta di Filippo Astone, «La disfatta del Nord», disponibile da oggi in libreria. La tesi del volume, edito da Longanesi, è che le classi dirigenti del Nord hanno gestito in modo pessimo sia i loro territori sia il Paese intero, affidato nelle loro mani. Questo ha prodotto in buona parte l'attuale situazione molto critica. È un'Italia che raccoglie i cocci della sua parte migliore e più ricca, il mitico Nord, quella che affronta l'autunno del 2013, cioè il momento in cui la crisi economica toccherà il suo punto peggiore, con durissime conseguenze per la popolazione.

Mentre tutto ciò avviene, il risultato delle elezioni della primavera 2013 ha lasciato il Paese nell'incertezza più totale. Non esiste alcuna proposta strutturata e credibile per uscire dalla crisi e nessuna forza politica pare avere le idee giuste per stimolare la crescita economica. Non si riesce a immaginare quale sarà la futura Storia (sì, con la S maiuscola) d'Italia. (...) Il macrotrend economico negativo esiste, certo, ma in tanti, in troppi l'hanno usato come una comoda scusa. Una coperta per nascondere il fatto che l'Italia (...) va peggio di tutte le altre economie occidentali ed europee paragonabili, ed è ben al di sotto della media Ocse. Colpevole di questa disfatta è soprattutto un'intera generazione di politicanti e affaristi del Nord. Con poche eccezioni, le classi dirigenti del Settentrione hanno gestito in modo pessimo e, talvolta, persino criminale, sia i loro territori, sia l'intero Paese consegnato nelle loro mani, conducendoli sull'orlo della disfatta. Il Nord e il Paese intero si sono "meridionalizzati", nel senso peggiore che si può dare a questo termine (...). La Caporetto è soprattutto economica e industriale. Certo, il lato più evidente e mediatizzato della disfatta del Nord è costituito dalle inchieste giudiziarie che, dalla primavera del 2012 in poi, hanno sconquassato un'intera classe dirigente come ai tempi di Tangentopoli. Con la non trascurabile differenza che l'ordine di grandezza delle cifre in gioco è pari a dieci volte quello delle indagini che travolsero, a partire da Mario Chiesa, la prima Repubblica. Prendiamo i numeri che la magistratura contesta ai ciellini Pierangelo Daccò e Antonio Simone, ipotizzando eventuali complicità del governatore lombardo Roberto Formigoni, indagato per l'affaire. Si tratta di 70 milioni di euro, relativi a uno soltanto degli almeno 20 filoni di inchiesta aperti contemporaneamente sulla Regione Lombardia.

Ebbene, quella cifra è pari all'intero importo della tangente Enimont (150 miliardi di vecchie lire) che segnò la fine politica di due ex presidenti del Consiglio come Bettino Craxi e Arnaldo Forlani, e di personaggi centrali dell'establishment politico quali Gianni De Michelis, Giorgio La Malfa, Renato Altissimo. Ai quali va aggiunto Umberto Bossi, l'eccezione che conferma la regola. Eccezione perché, sebbene abbia preso i soldi e sia stato condannato sino alla Cassazione, il Senatùr è uscito da quella stagione politicamente indenne. (...)
Un patto fra i produttori?
Al termine del nostro percorso fra le macerie ci chiediamo: ma il Nord e il Sud che si contendono queste risorse, dove si trovano realmente? Coincidono con il Settentrione e il Meridione della carta geografica, oppure si tratta di riferimenti politici? Non sarà che un po' dappertutto in Italia sono presenti un Settentrione produttore sempre chino a lavorare e un Meridione parassita e consumatore?
Magari, la questione settentrionale può essere vista in modo trasversale a tutti i territori del Paese. Si può definire come il rapporto fra quelli che producono concretamente lavoro e ricchezza e coloro che li assorbono in modo parassitario e assistito, restituendo poco o nulla ai primi. Per esempio, la Lega, il grumo di interessi Cl-Cdo e altri soggetti che abbiamo incontrato in questo viaggio nella disfatta potrebbero essere visti come esempi (settentrionali doc) di soggetti che succhiano risorse a chi le genera. Ma ce ne sono tanti altri.

(...)Peraltro, il Nord produttivo soffre soprattutto a causa di fattori del tutto estranei al luogo comune antimeridionale: le imprese piccolissime; la quasi totale scomparsa delle grandi aziende con il relativo indotto di ricerca, sviluppo, commesse, subforniture; la situazione disastrosa delle infrastrutture; il venir meno delle svalutazioni competitive; gli scarsi investimenti privati in ricerca e sviluppo; l'estrema difficoltà della sua economia nel compiere una trasformazione terziaria; le scarse innovazioni di processo e di prodotto per competere sulla qualità nel mondo; l'eccesso di burocrazia (...).
L'attuale presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, rappresenta forse il meglio che il Nord può esprimere oggi a livello di leadership. Ed è giusto parlarne al termine di un'inchiesta dedicata alla scadente classe dirigente del Settentrione. Il Nord, infatti, possiede al suo interno le risorse per rinascere. Il problema è trasformare quelle risorse in classe dirigente organizzata ed egemone. Non basta, insomma, il caso isolato: di uomini "alla Squinzi" ce ne vorrebbero alcune decine.

Squinzi può essere considerato un campione delle medie imprese del quarto capitalismo, quello che tiene in piedi l'Italia e di cui abbiamo appena finito di parlare. Certo, la sua azienda, la Mapei, è ormai una multinazionale (2,2 miliardi di euro di ricavi, il 70% dei quali all'estero) della chimica, ma è ancora gestita come quando, negli anni Settanta, venne fondata da Rodolfo Squinzi, il padre di Giorgio: molta ricerca e sviluppo; utili completamente re-investiti (non sono mai stati staccati dividendi); forte presenza della famiglia in azienda; molta internazionalizzazione; tutti contratti a tempo indeterminato; l'orgoglio di non aver mai licenziato né messo in cassa integrazione nessuno e di pagare stipendi più alti della media; nessun aiuto dalla politica né interferenza dello Stato. È tutto questo che ha permesso alla Mapei di diventare un'azienda medio-grande.

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