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Questo articolo è stato pubblicato il 24 ottobre 2013 alle ore 07:20.
L'ultima modifica è del 24 ottobre 2013 alle ore 09:14.

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Un secondo errore riguarda in modo particolare l'Italia. È la convinzione che le nostre difficoltà non derivano dalla moneta unica e dalle sue regole. Si ritiene che non si debba guardare a Bruxelles o a Francoforte ma dentro casa nostra per conoscere le ragioni del rallentamento della crescita, poi del suo arresto e infine della caduta, più grave che altrove, del reddito nazionale e dell'attività produttiva. Lo stesso Salvati, pur con qualche ambivalenza, aderisce a questa tesi. Egli scrive che «in una situazione recessiva possono essere necessarie condizioni di domanda esterna favorevoli, disavanzi mirati a sostenere la domanda, insomma, rimedi keynesiani», ma aggiunge che «nel medio e lungo periodo, la ripresa di una crescita robusta è un problema di offerta». E ancora: «Riforme strutturali e un atteggiamento più aperto da parte delle autorità europee vanno necessariamente insieme». Queste affermazioni indicano una convinzione radicata che sia una fuga dalla realtà accusare le regole della moneta unica. Si rimane trasecolati da questa visione "ultratedesca" dei nostri problemi. La questione è se i rimedi keynesiani siano necessari. Se lo sono, essi rimangono tali sia che il Paese in questione faccia le riforme strutturali sia che non le faccia. Bisogna fare riferimento al livello dell'occupazione.

Fino a quando nel nostro sistema si registra una elevata disoccupazione, è indispensabile una politica della domanda aggregata che sostenga consumi, investimenti, esportazioni. Quando fossimo giunti alla piena occupazione e volessimo forzare la crescita ulteriormente, dovremmo ricercare, attraverso le riforme, gli aumenti della produttività. Ma, fino a quel momento, a cosa servono le riforme dal punto di vista dell'andamento dell'economia? Magari esse rischiano, come ha scritto un gruppo di economisti europei, di aggravare la crisi del Paese, esattamente come è avvenuto nell'ultimo biennio sotto i colpi dissennati inferti dal governo Monti, senza neppure riuscire a ridurre né il rapporto fra deficit e Pil, né quello fra debito pubblico e Pil.
Questa visione conservatrice è oggi smentita sia dalla rivelazione che alcuni supposti lavori "scientifici" che le fornivano il supporto empirico - Rogoff e Reinhart e Alesina e Ardagna - contenevano errori grossolani sia dall'esperienza di questi anni. Il Fondo monetario ha oggi una posizione diversa dal passato sul da farsi; la posizione americana si muove lungo le stesse linee, così il Giappone. Solo la Commissione europea resta aggrappata a politiche che hanno aggravato la crisi. È paradossale che gli economisti italiani siano ancora sotto l'influenza di teorie che hanno danneggiato il continente.

Per anni la questione dell'euro poteva essere riassunta in un dilemma: se era un errore la decisione di procedere all'introduzione della moneta unica prima di completare l'unione politica, o se si trattava di un passo coraggioso che avrebbe accelerato la spinte verso l'unione politica. Oggi il problema non può più essere formulato in questi termini. La crisi economica di questi anni fa riemergere vecchie differenze o vecchi fantasmi del passato. Se, come scrive Salvati, la continuazione della situazione attuale porta all'asfissia mentre il tentativo di uscirne rinunziando alla moneta unica porta alla catastrofe, e se, come egli teme, si rischia di avere in sequenza prima l'asfissia e poi la catastrofe, allora bisogna porsi un interrogativo politico: se l'euro sta dividendo l'Europa, vogliamo difendere l'euro e mettere a rischio l'Europa, o vogliamo difendere l'Europa? Il dilemma è reale: se la moneta unica porta all'asfissia e poi alla catastrofe, non sarebbe meglio studiare una via di uscita comune da un sistema che ha eliminato la possibilità di operare un aggiustamento della competitività degli Stati attraverso la rervisione dei tassi di cambio?

Il problema va ricondotto ai suoi termini politici essenziali: se davvero, come scrive Salvati , non si intravvede un lieto fine alla storia di questi anni, bisogna decidere se sia più utile salvare la moneta unica o il progressivo avvicinamento politico fra i Paesi europei, che è il lascito sostanziale dei padri fondatori dell'Europa. Si sta avvicinando il momento in cui bisognerà scegliere fra queste due alternative.
L'articolo è una sintesi di un saggio che uscirà sul prossimo numero del Mulino

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