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Questo articolo è stato pubblicato il 03 novembre 2013 alle ore 09:09.
L'ultima modifica è del 03 novembre 2013 alle ore 14:14.

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Martedì 29 ottobre il Ministro dell'economia Fabrizio Saccomanni è stato audìto dalle Commissioni Bilancio di Senato e Camera dei Deputati in seduta congiunta a proposito della legge di stabilità. In tale occasione egli ha confermato la valutazione del capitale di Bankitalia tra 5 e 7 miliardi indicata dai tre "esperti di alto livello" che avevano ricevuto il compito dalla stessa Bankitalia il 20 settembre scorso. Su questa valutazione, sull'oggetto e la metodologia usata e sul contesto di riferimento nulla è dato ancora conoscere. Poiché l'avvio dei lavori di "stima" era stato pubblicizzato con un comunicato ufficiale, correttezza e trasparenza vorrebbero che altrettanto si fosse fatto con il responso. Ma possiamo dare per certo che prima o poi esso avrà la pubblicità che richiede. Quel "responso" ha natura di "autovalutazione" che andrebbe contrapposta ad una valutazione ad hoc chiesta questa volta dal Governo. Ma se si guarda all'interesse del Paese in questa vicenda non conviene forse disquisire sulle metodologie le quali, per definizione, non possono che essere soggettive con tutto il rispetto per i tre "periti" che le hanno applicate.

Purtroppo, pare che quella valutazione venga usata per un basso profilo. Viene infatti vista unicamente come opportunità per il bilancio dello Stato in un ristretto frangente temporale e per garantire l'autonomia di via Nazionale.
Lo Stato raccoglierebbe qualche spicciolo (gettito massimo un miliardo di euro, cifra assai dubbia) da un'imposta inflitta ai partecipanti che volessero rivalutare nei propri bilanci le quote Bankitalia che posseggono. Addirittura si vorrebbe che tale rivalutazione entrasse a far conto nel patrimonio di vigilanza delle banche azioniste, il che, a mio parere, sarebbe non solo da evitare, ma da condannare severamente. I tratti di penna applicati dagli amministratori richiamano brutti precedenti e manipolazioni contabili fatte da imprese che stentano a quadrare attivi e passivi. Non è questo il caso delle banche italiane (viste nel loro complesso) e non ritengo sia intelligente sottoporre il punto all'Europa che ci guarda sempre severamente. Detto en passant, se le quote Bankitalia dovessero restare nei bilanci di chi le possiede attualmente andrebbero classificate al peggior livello (il famigerato level 3) mancando un mercato nel quale esse siano scambiabili. Da un lato, né l' "autovalutazione", né l'eventuale controperizia ordinata dal Governo potrebbero risolvere il problema; dall'altro è inimmaginabile consegnare la valutazione della banca centrale ad un qualsivoglia mercato (e se fosse un mercato "efficiente", ahinoi!).

La seconda opportunità viene invece sostenuta da coloro che vorrebbero Bankitalia, ente di diritto pubblico, quale isola autonoma al di fuori dell'area pubblica. A tal proposito, vi è in primo luogo una questione puramente classificatoria. Le banche centrali europee sono collocate "statisticamente" al di fuori dell'aggregato "Amministrazioni pubbliche", ovvero di quell'insieme di entità sottoposte al controllo dei parametri di Maastricht. Ma l'aspetto più rilevante concerne l'indipendenza. Ebbene, l'indipendenza del ruolo "istituzionale" (il governo della moneta, la stabilità dei prezzi, ecc.) è già sancita dalla legge italiana che ha recepito le norme del Sistema europeo delle banche centrali alle quali l'attuale statuto si è conformato: "Nell'esercizio delle proprie funzioni, la Banca d'Italia e i componenti dei suoi organi operano con autonomia e indipendenza nel rispetto del principio di trasparenza, e non possono sollecitare o accettare istruzioni da altri soggetti pubblici e privati" (art. 1 dello Statuto, secondo comma). Altrettanto vale per le altre banche centrali dell'eurozona, le quali, per la verità, sono tenute, sempre nel quadro dei vincoli europei, anche a sostenere la politica economica generale del Governo (così la Banque de France e la Deutsche Bundesbank). Visto che si parla di revisione statutaria sarà bene aggiungere questa norma perché l'indipendenza di una banca centrale ha un senso solo se consente benefici al Paese.

E' importante ricordare dunque che l'indipendenza "istituzionale" è un fatto acquisito da tempo e certificato ufficialmente dalla nostra adesione all'euro. In passato era diverso. Tanto che la garanzia dell'indipendenza dal Governo (e dai politici) fu all'origine del particolare assetto proprietario che si volle dare a Bankitalia nel 1936. In quell'occasione Bankitalia, le cui azioni erano precedentemente quotate in Borsa, venne "nazionalizzata" rimborsando i soci "privati" al book value e ricostituendo il capitale (i famosi 156 mila euro attuali, ovvero gli storici 300 milioni di lire) chiedendo che esso fosse versato da enti finanziari sotto controllo pubblico. Lo Stato divenne quindi padrone di Bankitalia, ma si volle interporre un velo (che Enrico Cuccia definì "di carta velina", dato il contesto dittatoriale del tempo).

Cosa contavano i soci di Bankitalia quando erano pubblici? Assolutamente nulla in un periodo storico nel quale essi erano comunque alla mercé del Ministro del Tesoro il quale operava a stretto contatto con il Governatore. Tutto continuò senza problemi sino alle privatizzazioni degli anni '90. In quell'occasione ci si "dimenticò" del ruolo proprietario che le banche privatizzande avevano nel capitale di Bankitalia con il risultato che, a processo compiuto, la nostra banca centrale si è ritrovata con un azionariato non più pubblico, ma quasi totalmente privato (escluse le modeste quote di Inps e Inail): un nonsenso, considerando per giunta che i soci sono i più importanti soggetti vigilati.

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