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Questo articolo è stato pubblicato il 19 novembre 2013 alle ore 08:06.
L'ultima modifica è del 19 novembre 2013 alle ore 08:19.

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Dalla cultura che lascia affamati ("non si mangia") alla cultura che rilancia lo sviluppo dell'Italia post-industriale e schiude un nuovo Rinascimento al Paese che vanta il maggiore patrimonio storico-artistico del mondo, il passo non è breve. Ma in pochi anni sembrerebbe compiuto. A parole. Arti dello spettacolo, dalla musica al teatro, musei, architettura e siti archeologici sono definiti "motori di crescita economica" anche da chi non abbia alcuna idea su come mettere in pratica e organizzare un così vasto programma.
Sono definiti "motori di crescita economica" anche da chi non immagina neppure quanti passi indietro debba fare chi "occupa" il patrimonio per gestire posti (e spese) anziché valorizzare luoghi, lasciandoli cadere a pezzi come avviene (almeno in parte) a Pompei.
La cultura, piaccia o meno, è divenuta bene di consumo, anche grazie alle tecnologie digitali; la sua domanda è globalizzata e centinaia di milioni di turisti dei nuovi mondi invadono ogni anno l'Europa (molto meno l'Italia): è il momento di indirizzare in modo strategico l'uso del nostro ricco patrimonio, in prospettiva di medio-lungo termine ed economicamente sostenibile.

Bisogna individuare un percorso, creare un'agenda culturale italiana e ridefinire il ruolo della creatività per il benessere del Paese. Sul piano dei princìpi non bisogna inventare nulla, quarant'anni dopo la Convenzione Unesco sulla protezione del patrimonio mondiale, culturale e naturale dell'umanità (ratificata dall'Italia con sei anni di ritardo) che considera la cultura e la creatività «leve di uno sviluppo sostenibile», e ha finora posto sotto la sua protezione quasi mille siti in 160 Paesi del mondo, con il primato italiano di 49 siti e quasi altrettanti nella lista delle candidature. Del resto anche la strategia Ue per la crescita, Europa 2020, è accompagnata da un Piano di lavoro per la cultura, che intende valorizzare il potenziale culturale e creativo delle imprese in vari settori.
Perfino in Italia il ruolo della cultura nell'economia non è mai scomparso del tutto dall'orizzonte: lo si ritrova nel Libro bianco sulla creatività, redatto da esperti indipendenti, incaricati nel 2009 dal ministro per i Beni e le attività culturali di offrire idee per valorizzare la produzione e l'industria culturale. E un intenso dibattito ha infine suscitato il Manifesto per una Costituente della cultura proposto nel 2012 dalla Domenica del quotidiano economico Il Sole 24 Ore, poi discusso dagli Stati generali della Cultura, aperti a Roma dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano.

Il modello è semplice, ma la sfida è difficilissima, proprio per la riproducibilità, apparentemente senza limiti, consentita dalle tecnologie digitali. Invece cultura e creatività sono sinonimi di unicità, autenticità e non-ubiquità. Walter Santagata, il maggiore esperto di economia della cultura in Italia e in Francia, presidente della commissione che ha curato il Libro bianco, improvvisamente scomparso nell'estate 2013, riassumeva così il concetto di "Fabbrica 3 della Cultura" (è anche il titolo di un suo saggio per Il Mulino, da poco tradotto dall'editore internazionale Springer): «Produrre cultura e conoscenza richiede creatività, altrimenti prevale ciò che è ripetitivo, scolastico, quindi, déjà vu». In altre parole, senza adeguata e tempestiva valorizzazione, i beni culturali rischiano la stessa pirateria che insidia i presìdi alimentari e i marchi contraffatti.
Cultura e creatività sono concetti a dir poco elusivi: i loro nomi sono molto inflazionati e perciò insufficienti a definirli. Aiuta a fare chiarezza la Dichiarazione universale Unesco del 2001 sulla Diversità culturale (molto importante, anche perché, da tempo in preparazione, fu approvata all'unanimità a Parigi poche settimane dopo l'attentato alle Torri Gemelle, e afferma i valori del pluralismo e dell'integrazione, contro gli integralismi) definisce la cultura «l'insieme dei distinti aspetti presenti nella società o in un gruppo sociale, quali quelli spirituali, materiali, intellettuali ed emotivi; e include sistemi di valori, tradizioni e credenze, insieme all'arte, alla letteratura e ai vari modi di vita».

Per il nostro discorso sono importanti alcune forme in cui si manifesta la cultura: il capitale, la produzione, l'industria culturale. Il capitale incorpora, conserva e fornisce valore culturale in aggiunta agli altri valori economici. La produzione include il processo di ideazione, creazione e distribuzione di beni culturali. A definire l'industria culturale ha appena provveduto la Commissione europea, nel 2012: produce e commercializza beni e servizi derivanti da espressioni culturali.
A volte si preferisce credere che l'attività artistica sia estranea alla produzione e quindi al valore economico. Invece tutti gli aspetti coesistono. E ben ce ne accorgiamo quando grandi istituzioni artistiche rischiano il fallimento o quando, pur ben amministrate e in equilibrio, sono equiparate a un qualsiasi ente pubblico, con effetti tanto gravi, quanto imprevisti e involontari. Nell'autunno 2013 il Teatro alla Scala ha lanciato l'allarme: in un decreto legge intitolato alla «valorizzazione e al rilancio dei beni e delle attività culturali e del turismo», il Parlamento ha inserito limiti alla presenza dei privati nel consiglio di gestione, così da mettere a rischio contributi economici fondamentali per l'autonomia e l'equilibrio dell'ente lirico che, su un bilancio di 116 milioni di euro, riceve contributi pubblici per meno di un terzo, incassa quasi altrettanto con gli spettacoli e i diritti, e ottiene il terzo restante dalle imprese socie e sponsor della fondazione. Insomma, un provvedimento battezzato "valore cultura", che ottiene l'esatto contrario degli obiettivi perseguiti. Il governo ha ammesso l'errore, ma non c'era più tempo di modificare il testo senza rischiare la decadenza del decreto. Allora ha fatto una promessa: alla prima occasione, un emendamento a qualche altro decreto porrà rimedio all'infortunio.

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