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Questo articolo è stato pubblicato il 29 dicembre 2013 alle ore 08:22.
L'ultima modifica è del 29 dicembre 2013 alle ore 14:24.

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La battaglia assembleare sul Monte di Paschi ha un vincitore solo sul piano legale, perché il futuro della banca rimane avvolto in una grande incertezza. La vicenda ha assunto toni paradossali che sarebbero piaciuti a Beckett perché si sono confrontate due istituzioni che rischiano di autodistruggersi in una sciagurata simbiosi.

Di qua la Fondazione - diversamente gestita dal nuovo presidente - che in passato ha avallato come azionista di controllo le scelte manageriali più azzardate e che è arrivata ad indebitarsi per sottoscrivere aumenti di capitale quando ormai le azioni erano in caduta libera. Di là la banca che deve scontare oggi gli errori (e gli inganni) del passato con un conto economico in profondo rosso (solo negli ultimi due anni, 8 miliardi) e che ha dovuto chiedere l'intervento statale (sotto forma di onerosi Monti-bond) per 4,1 miliardi.

L'assurdo è che entrambe le istituzioni hanno oggi una guida impegnata nel cambiamento: la Fondazione a salvare il salvabile, cioè a massimizzare il valore del suo pacchetto azionario, oggi ridotto al 33 per cento del capitale, ma soprattutto ad evitare che le quotazioni scendano sotto la soglia critica di 0,128 euro, che farebbe scattare la garanzia in capo alle banche internazionali che a suo tempo concessero il finanziamento. La banca ha dal suo canto iniziato un problematico piano di ristrutturazione, che prevede fra l'altro la chiusura di 550 sportelli e il taglio di 8.000 dipendenti. In questa prospettiva, ha ritenuto opportuno anticipare la lunga fila che si formerà sul mercato degli aumenti di capitale bancari nel 2014 (gli stress test incombono) e assicurarsi i capitali per il rimborso dei Monti-bond e quindi risparmiare i cospicui interessi relativi.

In questo clima, lo scontro si è consumato nell'apparente neutralità degli interessi locali e nazionali coinvolti, quasi si trattasse di una normale vicenda aziendale o al massimo di una nuova versione del Palio, non già di una svolta cruciale per i destini della terza banca del paese. Ma neanche Ponzio Pilato avrebbe potuto pensare che da un'assemblea azionaria con queste prospettive potesse uscire una soluzione equilibrata. Aveva visto giusto il Fondo monetario quando nel suo rapporto sull'Italia aveva detto che la ristrutturazione del Monte «è di importanza critica non solo per la banca, ma per l'intero sistema». E puntualmente il sistema-Italia ha dimostrato di non sapersi coordinare in tempo utile ed è costretto a rincorrere affannato soluzioni di emergenza. Non solo: ha sottovalutato che la posta in gioco è ancora più alta perché coinvolge il ruolo che le Fondazioni (e per il loro tramite, la politica) devono avere nelle banche.

Tutto questo significa che il rinvio non è affatto neutrale e che i costi che si prospettano (mancato risparmio sui Monti-Bond per circa 130 milioni e incertezza sulle condizioni del mercato dei capitali fra cinque mesi) vanno imputati all'incapacità di trovare una soluzione equilibrata nei mesi passati. E il punto critico è la Fondazione. Il nodo cruciale è la situazione finanziaria dell'ente, appesantita dal fardello di 350 milioni di debiti bancari che trasforma il maggior azionista in un'anatra zoppa e la espone al disastro se il valore dell'azione, che ovviamente è il frutto anche di manovre speculative e di interessi non limpidi, scende sotto una certa soglia, rendendo così meno efficace la svolta gestionale annunciata dal nuovo presidente. Il Governo deve quindi usare tutti mezzi ordinari e straordinari per rimettere in linea di galleggiamento la nave della Fondazione, supportando l'azione risanatrice del nuovo presidente. Non solo: deve evitare che questa vicenda si concluda con l'esito paradossale di un rafforzamento della presa delle Fondazioni sulle banche. Piaccia o no, una soluzione «di sistema» che passi solo attraverso uno sforzo consortile di fondazioni verrebbe visto come la restaurazione del vecchio potere con nuove facce.

Se non fosse stato così intensamente occupato dall'estenuante esercizio di cambiare nome e base imponibile all'Imu, il governo avrebbe capito che fra «le riforme di cui il paese ha bisogno» - come recita la giaculatoria di moda - vi è anche quella di un diverso rapporto con il mondo produttivo e quindi anche con una realtà imprenditoriale che al momento in cui è scoppiata la crisi coinvolgeva oltre 30mila dipendenti e 6 milioni di clienti.
Ma proprio per questo il vero ritardo da colmare è quello di trovare un nucleo di investitori disposti davvero a credere nel risanamento e a dare qualche certezza che dopo l'inevitabile aumento di capitale i destini della banca non siano lasciati ai venti incerti e tempestosi cui sono soggette le public companies impegnate in una ristrutturazione delicata. Le vicende di Parmalat, ma anche di Telecom, dovrebbero averci insegnato qualcosa.

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