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Questo articolo è stato pubblicato il 12 gennaio 2014 alle ore 16:40.
L'ultima modifica è del 12 gennaio 2014 alle ore 17:32.

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Quando un leader politico sopravvive più del dovuto al suo tempo, la Storia tende a dimenticarlo. Il caso di Ariel Sharon, tecnicamente primo ministro d'Israele (non ha mai smesso di percepirne lo stipendio), tuttavia è unico nel genere. Un ictus, il secondo in pochi giorni, lo colse fuori dall'ufficio di premier il 4 gennaio 2006. Da allora, negli ultimi 8 dei suoi 85 anni, aveva vissuto in uno stato vegetativo.

Una punizione divina per un uomo d'azione, per lo più brutale. Se si fosse risvegliato, Ariel Sharon detto Arik, non avrebbe riconosciuto Israele. E ne sarebbe rimasto deluso. L'aveva lasciato molto vicino a una soluzione della fondamentale questione palestinese. Lo avrebbe ritrovato molto lontano. A prima vista sembra irragionevole definire Sharon un uomo di pace. Il suo è un curriculum da guerriero. Creatore dell'Unità 101, il reparto costituito per vendicare, anche contro la popolazione araba inerme, le azioni palestinesi dentro Israele; accusato di aver ordinato nel Sinai l'esecuzione dei prigionieri egiziani nella guerra del 1956; uguale trattamento con i palestinesi di Gaza in quella del '67. Ministro della Difesa nel 1982, ideatore dell'invasione del Libano e responsabile morale dei massacri palestinesi di Sabra e Chatila; sostenitore della colonizzazione ebraica.
Sharon fu l'uomo che passeggiando fra le moschee della Spianata di Gerusalemme, provocò la seconda Intifada: anche se quel gesto fu la vera causa della rivolta palestinese quanto il rapimento di Elena della guerra di Troia. Con Yasser Arafat aveva ingaggiato un duello personale e mortale, durato quarant'anni, inseguendolo in Giordania, Libano, Cisgiordania fino alle macerie della Mukhata di Ramallah.

Eppure se questo conquistatore di terre arabe sarà ricordato dalla Storia, è per essere stato il primo israeliano a ritirarsi da un territorio palestinese: per la destra israeliana alla quale lui apparteneva, quei territori sono Grande Israele. Nell'estate 2005, da primo ministro, Arik ordinò la distruzione di tutti gli insediamenti ebraici nella striscia di Gaza, e di alcuni nella Cisgiordania. Il suo piano era di continuare un disimpegno unilaterale da quasi tutti i Territori occupati.

Attaccato dalla sua stessa gente del Likud, Sharon fondò un partito chiamato come l'ordine che aveva sempre dato in combattimento, da quando era diventato comandante del plotone nel 1948: Kadima, avanti. Qualche mese dopo, Arik avrebbe rivinto le elezioni su un programma di due righe: "Liberare Israele dalla gran parte della Cisgiordania". Guidati da un uomo come lui, gli israeliani erano pronti a scrollarsi di dosso la questione palestinese. Ma il doppio ictus fermò tutto: Ehud Olmert, il successore, mancava della gravitas di Arik per eseguire il piano.

È evidente che Sharon non fosse un uomo di pace nel senso comune della definizione. Il disimpegno che aveva ordinato e avrebbe concluso se il destino non avesse messo una zeppa, non era il frutto di un negoziato con Abu Mazen (Arafat, il suo duellante, era morto meno di un anno prima). Era piuttosto la constatazione di un sionista pragmatico e non ideologico. La "questione demografica" gli era stata spiegata da Sergio Della Pergola, israeliano di origine milanese, demografo di fama mondiale: in pochi decenni, in Israele e nei territori palestinesi conquistati ci sarebbero stati più arabi che ebrei. Si avvicinava il giorno in cui Israele avrebbe dovuto scegliere fra essere un grande Paese democratico ma multietnico, o ebraico ma segregazionista. Sharon scelse la terza ipotesi di un Israele più piccolo, ebraico e democratico.

Sia pure attraverso sentieri militaristi a volte estremi, Sharon aveva compiuto lo stesso percorso degli altri padri di Israele contemporaneo: Yadin, Dayan, Allon, Rabin, Peres, Barak. Guerrieri e nemici giurati degli arabi, alla fine convintisi che solo la trattativa avrebbe dato confini sicuri e concluso l'impresa sionista. Impresa e conflitto restano incompiuti.

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