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Questo articolo è stato pubblicato il 10 febbraio 2014 alle ore 08:15.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 12:02.

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La nomina del nuovo presidente dell'Invalsi, giunta dopo non poche polemiche, è un'occasione per riaprire il dibattito sullo stato della valutazione, che vede l'Italia in grave ritardo rispetto alla maggioranza degli altri Paesi europei, e questo per due motivi: a) la mancanza di una politica di sistema nell'impianto di un sistema di valutazione; l'Invalsi, nato nel 2000, è stato infatti riformato almeno quattro volte, nel 2004, 2007, 2009 e 2013; l'Anvur, istituita nel 2006, è entrata in funzione nel 2011 e ha dotazione umane e finanziarie sottodimensionate rispetto ai compiti che la legge le assegna; b) la presenza di un radicato pregiudizio culturale per cui la valutazione viene vista, secondo Erault, come «un raffinato esercizio di attribuzione delle colpe» e non come uno strumento insostituibile per il decisore politico, per decidere dove e come intervenire; per gli studenti e le loro famiglie, per scegliere la scuola o la facoltà; e infine per le istituzioni stesse, come indicazione per il miglioramento della loro offerta.

Il limite principale del sistema di valutazione è precisamente quello di non essere un sistema, inteso come insieme di parti coordinate che interagiscono l'una con l'altra. La mancanza di collegamenti fa sì, ad esempio, che le università non dispongano d'informazioni sulle matricole, spesso impreparate, per cui le stime più recenti ci dicono che a sei anni dall'iscrizione si è laureata circa la metà delle matricole, e una su tre ha abbandonato. Nel primo anno abbandona circa il 15%, 50mila in valore assoluto. Considerazioni analoghe si possono fare per il passaggio dalla secondaria di primo a quella di secondo grado. In mancanza di collegamenti, è evidente che si genera una frammentarietà che limita pesantemente l'utilità della valutazione.

Dal versante dell'università ho ricevuto una conferma forte e in parte inattesa del fatto che la valutazione è un tipico fenomeno "nimby", accolto con favore purché riguardi gli altri e non noi. Il valutatore è un nemico contro cui lottare a colpi di ricorsi al Tar, da delegittimare in ogni modo lecito e meno lecito, le tecniche sono per definizione inadeguate, i giudizi parziali, quando non legati a oscuri giochi di potere. Si rifiuta soprattutto l'idea che gli esiti della valutazione comportino delle conseguenze, benché sia evidente che una valutazione che non ha conseguenze resta lettera morta: tanto è vero che non appena si è introdotto nell'università un finanziamento legato alla valutazione, si è levato un coro di proteste.

Se il fine della valutazione è quello di innescare processi di miglioramento, è essenziale la funzione di identificazione dei punti critici del sistema o delle istituzioni o di parte di esse, non per il gusto di assegnare dei cattivi voti, ma perché diventino oggetto di una riflessione sistematica. Non sempre, ma già succede: a seguito della Vqr (Valutazione della qualità della ricerca), alcuni dipartimenti o atenei, non tutti ma nemmeno troppo pochi, hanno introdotto spontaneamente pratiche virtuose.

Nella scuola, forse perché c'è una minore abitudine all'autonomia, le resistenze sono ancor più pesanti, e si è visto come ogni tentativo di premiare in qualche modo gli insegnanti migliori, quelli che fanno la differenza, si è arenato di fronte all'opposizione intransigente di quella parte dei sindacati (non piccola) che preferisce tutelare i diritti dei docenti a tirare a campare, piuttosto che quello dei ragazzi ad avere una formazione di qualità. Certamente, le tecniche di valutazione possono essere criticate, ma ho la sensazione che gli attacchi siano in realtà contro il principio stesso della valutazione, e il rifiuto dei test perché meccanici e riduttivi mi pare molto legata al timore che misurare le competenze dei ragazzi significhi esprimersi sulle capacità dei docenti.

L'opposizione si configura come un tentativo di non rimettere mai in discussione il proprio operato e la struttura di potere che ha originato. Tanto più vaghe sono le misure, tanto più facile diventa sfuggire alle proprie responsabilità: se nell'Invalsi venisse meno la continuità, per una diversa sensibilità e non per una mancanza di qualificazione, e si operasse un ridimensionamento del programma di test in favore della cosiddetta "valutazione qualitativa", finiremmo anche con l'allontanarci dal quadro di riferimento europeo.

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