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Questo articolo è stato pubblicato il 26 maggio 2014 alle ore 06:45.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 15:42.

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Le politiche di tagli si sono, dunque, fatte sentire sia da noi che Oltremanica, con conseguenti effetti sulla spesa per il lavoro pubblico, che in Italia è prevista – nel periodo 2008-2015 – in discesa del 3%, nel Regno Unito dello 0,1%, mentre in Francia aumenta del 14,3%, anche al di sopra della media Ue, stimata in 8,5 per cento.
Nel nostro Paese, però, i risparmi non si sono tradotti in efficienza. Anzi, hanno peggiorato una situazione già difficile. I tagli alla spesa hanno, infatti, significato, tra l'altro, blocco del turn over. Dunque, niente ricambio generazionale, fenomeno acuito dalla riforma delle pensioni, che ha fatto slittare in avanti il momento di abbandono del lavoro. L'età media dei dipendenti pubblici, pertanto, si è innalzata.
Il risultato è che in Italia solo il 10% degli impiegati ha meno di 35 anni e solo l'1% ha 25 anni o meno. In Francia i dipendenti pubblici sotto i 35 anni sono quasi il 27% (il 5,4% ha 25 anni o meno) e in Gran Bretagna il 25% (il 4,9% è nella fascia dai 25 anni in giù). La situazione si ribalta se si guarda alla categoria degli over 50: vi si collocano il 46% dei lavoratori pubblici italiani, contro il 30,6% della Francia e il 30,7% del Regno Unito.

Come se non bastasse, al problema di una burocrazia "vecchia" si somma quello dell'insufficienza delle competenze. Intanto, tra i dipendenti pubblici nostrani la percentuale di laureati è bassa: il 30,5% contro il 45% di quelli inglesi e il 50,7% dei cugini d'Oltralpe. Ciò che, però, pesa di più è il fatto che il 49% degli impiegati italiani si trova a ricoprire, senza essere laureato, un posto che richiederebbe un titolo universitario.
E non è certo con la formazione che si può sperare di supplire a simili carenze: «Nonostante tutti i proclami che si sono succeduti a cominciare dal ministro Frattini nel 2002, un impiegato pubblico italiano – si legge nell'indagine di Forum Pa – in media può contare su meno di un giorno all'anno di formazione (4,5 giorni se è in diplomazia, ma mezza giornata se è in un ministero), contro le 8,2 giornate di formazione di un impiegato pubblico francese, che diventano 10 per i dirigenti».
C'è poi l'aggravante della cattiva distribuzione geografica dei dipendenti – in Calabria sono 130 ogni mille abitanti e in Lombardia 60, segno che il lavoro pubblico è spesso servito come ammortizzatore sociale – e della frammentazione della burocrazia: escludendo le 41mila scuole e istituti di istruzione, le unità locali sono oltre 60mila. I ministeri hanno quasi 5mila uffici distaccati, le province più di 2.100, le regioni 1.778.

Nonostante tale quadro poco edificante, le isole di privilegio continuano a esistere e resistono ai cambiamenti. In particolare, ai livelli apicali della burocrazia. I dirigenti in senso stretto sono oltre 36mila, che diventano 166mila se si aggiungono i 130mila dirigenti medici e sanitari, che spesso non dirigono alcunché, ma hanno la qualifica per questioni contrattuali. Se si considera l'intero universo di figure di vertice, si riscontra che il numero dei dirigenti, per quanto diminuito in valori assoluti, continua a crescere rispetto al totale dei dipendenti: nel 2004, infatti, c'era un dirigente ogni 12,3 impiegati, mentre nel 2012 il rapporto era di uno a 11,7 dipendenti.
E ciò ha riflessi sulla spesa, perché se gli stipendi dei dirigenti di seconda fascia sono aumentati meno delle retribuzioni degli impiegati, quelli dei dirigenti di prima fascia e apicali hanno subìto incrementi significativi. Così che in Italia un dirigente apicale guadagna 12,6 volte il reddito medio, mentre in Gran Bretagna la medesima proporzione è 8,4 volte, in Francia 6,4 e in Germania 4,9.

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