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Questo articolo è stato pubblicato il 20 maggio 2010 alle ore 14:05.
L'ultima modifica è del 21 maggio 2010 alle ore 16:12.
Il cantante, compositore e direttore d'orchestra americano Bobby McFerrin – soprattutto cantante, dotato di quattro ottave di estensione e di orecchio assoluto – è ritornato dopo tre anni esatti al Teatro alla Scala, in un concerto a favore della Croce Rossa, per esibirsi nelle sue funamboliche improvvisazioni solitarie e per dirigere di nuovo l'Orchestra Filarmonica.
E' opportuno tentar di capire (e di spiegare) perché, malgrado l'entusiasmo da stadio insolito nella sala del Piermarini, durante le esecuzioni orchestrali gli intenditori presenti in platea si cercassero ogni tanto con sguardi che esprimevano dubbi. Era accaduto più spesso nel maggio 2007, specie dopo le prime note della Sinfonia n.4 di Felix Mendelssohn.
Cerchiamo di ripercorrere il momento e il clima in cui McFerrin, già fenomenale personaggio mediatico in patria, affrontò il Vecchio Continente. Correvano gli anni ottanta e i vent'anni per il vocalist, nato a New York nel 1960. In Europa lievitava la consapevolezza che nel jazz tutto stava cambiando, e che dì lì a poco nulla sarebbe stato più come prima. Il pianista e compositore Randy Weston, che oggi ha 84 anni ed è uno dei grandi patriarchi della stagione del "vero jazz" ancora viventi, così ammoniva perfino chi non voleva sentire: "Non vedete? Il jazz, come noi lo abbiamo conosciuto e ammirato, sta per finire.
I suoi esponenti maggiori sono ormai pochi e sono tutti vecchi. Se non ne arriva un altro, il jazz passa alla storia". Cominciò così (in Europa, non in America) la ricerca quasi morbosa di un "nuovo genio" della véritable musique de jazz, secondo la definizione dei francesi, che fosse capace di imprimerle in breve una svolta definita come avevano fatto i Charlie Parker e i John Coltrane. Sotto questo aspetto stava già deludendo il sommo trombettista Wynton Marsalis. Ma ecco presentarsi, al di qua e al di là delle Alpi, Bobby McFerrin.
Era capace di sfruttare al massimo le risorse del microfono che maneggiava con sapienza. E mentre cantava – soprattutto sillabando, senza parole – si picchiava il petto con l'altra mano per sostenere la voce con il ritmo opportuno.