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Questo articolo è stato pubblicato il 13 febbraio 2011 alle ore 14:35.
Bambini, ragazzi: la telecamera è alla vostra altezza. Sente i passi piccoli affrettati, la mano che non arriva allo scaffale, lo stupore verso la sconcezza della vita. Questo ha mostrato la prima parte del Berlino international film festival, fino al 20 febbraio nella capitale tedesca. In El premio, opera prima in concorso dell'argentina Paula Markovitch, la pellicola è tutt'uno con la piccola Cecilia (Paula Galinelli Hertzog). Lo rivela il lungo piano sequenza iniziale, che amalgama il volto tormentato della bambina con i colori cupi della spiaggia invernale nell'Argentina degli anni Settanta.
Cecilia vive con la madre in un'abitazione di fortuna: pareti di cemento, un letto e un fornello a gas. Non sa dove sia il padre, ma in un telegramma ha scritto che è pessimista, anche se Cecilia non sa cosa significhi. Va bene a scuola, anche se deve mentire sulla sua identità e sulla professione dei genitori ai piccoli amici con cui si rotola nelle dune di sabbia e nella competizione letteraria il cui tema è il valore dell'esercito. Cecilia vince la gara e sarà premiata da un generale: ci saranno applausi per lei e gonna e scarpe eleganti in prestito. Ma che dissidio il desiderio di riconoscimento con il dolore della madre, che si rivolta contro quell'esercito che elogia la figlia, perché è lo stesso che ha fatto sparire la cugina e che ha fatto diventare "pessimista" il padre, che probabilmente non tornerà più.
Storia autobiografica questa, come quella Almanya (in competizione) di Yasemin Samdereli, certo meno grave, ma sempre raccontata con gli occhi infantili. Come spiegare al piccolo Cenk (Rafael Koussoris) perché a scuola a pallone non sa se giocare nella squadra dei turchi o dei tedeschi? Per dargli conto della sua identità, una cugina racconta l'esodo della sua famiglia d'origine dall'Anatolia in Germania durante gli anni Sessanta. Cenk interpreta l'epopea con elementi visionari fantastici: cannucce con alimentazione continua di Coca-Cola, Gesù che scendono dai crocefissi appesi al muro, nella girandola di reciproci pregiudizi tra popoli e culture che non si conoscono, ma che alla fine sanno incontrarsi.