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Questo articolo è stato pubblicato il 01 maggio 2011 alle ore 15:32.

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Già quand'era ancora in vita, la leggenda di Gandhi era cresciuta a tal punto che il Mahatma, come uomo, era praticamente scomparso. Con il suo nuovo libro, Joseph Lelyveld si mette sulle sue tracce. Il sottotitolo ci avverte che non si tratta di una biografia convenzionale, in quanto l'autore non presenta la storia ben documentata della lotta di Gandhi per l'India quanto piuttosto la sua lotta con l'India, il Paese che, assieme a un indiscusso amore, suscita-va in lui sgomento, rabbia ed esasperazione.

All'inizio del libro, Lelyveld abbandona le convenzioni della biografia sorvolando sugli anni dell'infanzia e degli studi di Gandhi, ritenendo che il giovane avvocato ventitreenne arrivato in Sudafrica nel 1893 non aveva molto dell'uomo che sarebbe diventato. Inoltre, la sua nascita in una cittadina del Gujarat (sulle coste occidentali dell'India), l'infanzia in una famiglia tradizionale – di osservanza giainista – appartenente alla casta mercantile Modh bania, e i tre anni trascorsi poi a Londra a studiare legge, vengono già presentati in modo dettagliato e con una disarmante vivacità nell'autobiografia del Mahatma stesso, La mia vita per la libertà (Newton, Roma 2007). Lelyveld ritiene che sia stato il Sudafrica a trasformare Gandhi nel leader visionario diventato poi leggenda; non è il primo o l'unico storico ad aver evidenziato questo passaggio, ma rispetto agli altri autori egli può attingere a conoscenze di prima mano basate sugli anni da lui trascorsi co-me corrispondente del New York Times in Sudafrica e in India, nonché alle ampie ricerche che ha condotto con una rara ed equilibrata simpatia per il personaggio.

Avendo accettato l'incarico di assistere come traduttore in una causa ci-vile fra due mercanti musulmani provenienti dall'India, Gandhi si presentò al tribunale di Durban il 23 maggio 1893, il giorno dopo il suo arrivo, vesti-to in abiti eleganti, con un soprabito a doppiopetto, un paio di pantaloni a righe e un turbante nero; di fronte all'immediato ordine di togliersi il tur-bante, si rifiutò di obbedire, lasciò la corte e scrisse una lettera infuocata di protesta alla stampa. Questo fu il suo primo atto politico, precedente al fa-moso episodio (raccontato nel film Gandhi di Richard Attenborough e in Sa-tyagraha di Philip Glass) in cui un inglese che non voleva viaggiare assieme a un «uomo di colore» lo costrinse a scendere da un treno. Per quanto ciò possa sembrare curioso per un indiano, pare che questo sia stato il suo pri-mo incontro con l'arroganza coloniale; stando alla sua autobiografia, fu a causa di questo episodio che si decise a rimanere per «sradicare il morbo» del «pregiudizio di colore». Fu l'inizio della sua «eterna opposizione», come l'avrebbe chiamata Erik Erikson, ma fu anche un esempio, sottolinea Lel-yveld, di un atteggiamento molto più complesso riguardo alla razza, il colo-re e la casta, che il Mahatma aveva portato con sé dall'India.

Fu uno shock, per Gandhi, scoprire che in Sudafrica era considerato un «coolie», un termine che in India era riservato a chi svolgeva un lavoro ma-nuale, in particolare i facchini. In Sudafrica, la maggioranza degli indiani era costituita da operai Tamil, Telugu e Bihari, giunti a Natal per lavorare a contratto per cinque anni nelle ferrovie, nelle piantagioni e nelle miniere di carbone; venivano indicati collettivamente come «coolie», e Gandhi era con-siderato un «avvocato coolie».

Ciononostante, aveva una grande fiducia nel proclama del 1858 della re-gina Vittoria, che estendeva formalmente la sovranità britannica sull'India e prometteva ai suoi abitanti la stessa protezione e gli stessi privilegi di tutti gli altri sudditi, esprimendo il desiderio che i sudditi indiani «venissero ammessi liberamente e con imparzialità ai nostri uffici». Così, quando nel 1899 scoppiò la guerra anglo-boera (seguita poi, nel 1906, dalla rivolta degli zulu), Gandhi spinse la comunità indiana (era entrato nel Natal Indian Con-gress) a offrire i suoi servigi alla potenza coloniale come «cittadini a pieno titolo dell'impero britannico, pronti a farsi carico dei loro obblighi e a meri-tarsi i diritti loro concessi». Era orgoglioso di essere al comando dell'unità dei barellieri indiani; un inizio alquanto improbabile, potremmo pensare, per un uomo che sarebbe diventato l'ispiratore della lotta per la libertà in India e in altri Paesi del mondo.

Fu con l'approvazione, nel 1906, del cosiddetto Black Act, che costringe-va gli indiani che vivevano nella provincia di Transvaal a registrarsi, che Gandhi iniziò a tenere degli incontri e a incitare i suoi compagni a bruciare i permessi che dovevano portare con sé; fu così, scrisse, che si ritrovò condot-to in una prigione per i cafri… Va bene non essere classificato assieme ai bianchi, ma essere messo sullo stesso livello dei nativi africani gli sembrava davvero troppo. Era senza dubbio giusto che gli indiani dovessero avere delle celle separate: i cafri erano degli incivili già normalmente, figurarsi i criminali. Erano individui molesti, sporchi, e vivevano quasi come animali.
Gli africani non potevano ignorare il disprezzo mostrato da Gandhi nei loro confronti: i giornali zulu scrissero che gli indiani correvano a lavorare come volontari per i «selvaggi inglesi in Natal», e anche una pubblicazione indiana in Inghilterra definì «disgustosa» la disponibilità di Gandhi a servi-re i bianchi. Fu solo molto tempo dopo (e grazie al senno di poi) che il Ma-hatma dichiarò che «il mio cuore era con gli zulu», affermando che le cru-deltà che aveva visto compiere contro di loro erano state «il più grande pun-to di svolta della sua vita spirituale», quello che lo avrebbe portato ad ab-bracciare, come strategia di resistenza, la nonviolenza. Quest'ultima diven-ne nota col termine di satyagraha, che tradotto letteralmente significa «forza della verità» o «fermezza nella verità».

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