Storia dell'articolo

Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 22 maggio 2011 alle ore 08:19.

My24
Domenico Petarlini, «Dante in esilio», 1860Domenico Petarlini, «Dante in esilio», 1860

«Lasciate ogni speranza, voi ch'entrate». Osserva opportunamente Gian Luigi Beccaria nella sua lezione Mia lingua italiana (appena pubblicata da Einaudi) che Dante non è solo artefice di mondi eterni, ma anche responsabile delle nostre immagini ed espressioni più quotidiane, come se noi ci rifugiassimo nella Commedia per dar linfa ai nostri giudizi: così «il natio loco, le dolenti note, il discendere per li rami, perdere il ben dell'intelletto, senza infamia e senza lode, ma guarda e passa, mi fa tremare le vene e i polsi».

A questi, altri «detti memorabili» potrebbero essere aggiunti, che punteggiano il nostro dire, enfatico o dolente, malinconico o fervido: «Per me si va ne la città dolente», «e caddi come corpo morto cade», «Era già l'ora che volge il disio / ai navicanti e 'ntenerisce il core», «Siena mi fe', disfecemi Maremma», «trattando l'ombre come cosa salda», «L'aiuola che ci fa tanto feroci», «A l'alta fantasia qui mancò possa», e così camminando e con lui il mondo misurando.

Questa familiarità con Dante, più che dai critici ci è stata restituita negli ultimi anni da Roberto Benigni: le sue letture in piazza Santa Croce (2006), la sua recente interpretazione del canto VI del Purgatorio, lo scorso 13 aprile, a Torino al PalaOlimpico, per la «Biennale Democrazia 2011», davanti a novemila giovani attenti e come contratti in un silenzio vivido, hanno fatto di Dante veramente il nostro «maggiore»; severo sì, titanico talvolta, ma anche – nella lettura piana e sofferta di Benigni – un giusto al quale si può affidare il dolore per l'Italia presente, per la corruzione sguaiata che la domina. È bastato che Benigni lasciasse il registro dell'ironia sul "qui e ora", e sùbito un'altra realtà, di passione altrettanto, ma di dignità antica e nuova, si imponeva dalla scena a tutte le gradinate, col gesto, con la voce, con i silenzi e le pause: «Ella non ci dicea alcuna cosa; / ma lasciavane gir, solo sguardando / a guisa di leon quando si posa» (Purgatorio, VI, 64-66).

La Commedia, è commedia: è il poema più dialogico di tutta la nostra letteratura; sfilano comparse, protagonisti, papi e liutai, parlano dal basso, rasoterra, infitti in ghiaccio e pece, oppure a petto erto d'orgoglio («"Vedi là Farinata che s'è dritto: / da la cintola in su tutto 'l vedrai". / I' avea già il mio viso nel suo fitto; / ed el s'ergea col petto e con la fronte / com'avesse l'inferno in gran dispitto»; Inferno, X, 31-36); o dall'alto, «regalmente ne l'atto ancor proterva», tale Beatrice al suo apparire (Purgatorio, XXX, 70). Come a teatro, ci sono dialoghi e monologhi, duetti serrati, ma anche straordinari "a parte": così Beatrice stessa che, discosta, finge sorridendo un colpo di tosse per metter fine al troppo caldo autoelogio di Dante e Cacciaguida, e della lor famiglia: «onde Beatrice, ch'era un poco scevra, / ridendo parve quella che tossio / al primo fallo scritto di Ginevra» (Paradiso, XVI, 13-15); e pensare che la fonte è niente meno che il Lancelot, ma Dante tutto curva e fa convergere al proprio spazio! Giustamente Sanguineti, Luzi, Giudici, fecero della Commedia un'azione scenica, e Benigni ora la prosegue.

Dante è teatro, e anche danza, che salta i versi e divide le parole: «Così quelle carole, differente-/ mente danzando, de la sua ricchezza / mi facieno stimar, veloci e lente» (Paradiso, XXIV, 16-18). E la «teodia» del Paradiso, lungi dall'essere squadrato sillogismo, è luce, lume e folgore, abbacinante incendio e cristallo; vorrebbe coreografi-teologi, capaci di star dietro a quelle terzine.

E invece Dante non è qui. Mentre nel mondo anglosassone più che il Rinascimento, è proprio l'autore della Commedia il focus degli studi universitari di italianistica e crescono dipartimenti e riviste, scemano, invece, nelle università italiane le cattedre dedicate a Dante: non solo esse rimangono sparute eccezioni, ma mancano addirittura in sedi che sono state culla degli studi danteschi. Sebbene non sia agevole sapere esattamente quante siano oggi le cattedre di Filologia dantesca, poiché con Dm 4/10/2000, tutto il settore è stato "accorpato" nella categoria Filologia della letteratura italiana che comprende Letteratura medievale, umanistica, rinascimentale e altre discipline filologiche; non è tuttavia difficile constatare che con la scomparsa di studiosi come Francesco Mazzoni, di Guglielmo Gorni e il collocamento a riposo di Anna Maria Chiavacci Leonardi, gli insegnamenti specifici dedicati a Dante si sono contratti. A fronte di questo impoverimento, trovano vivo successo iniziative che partono da benemeriti docenti liceali come le «Settimane di studi danteschi» di Palermo, animate da un decennio da Giuseppe Lo Manto, che hanno riunito negli anni studiosi indimenticati quali Edoardo Sanguineti, e gli «Esperimenti danteschi», una fervida lectura Dantis proposta dai giovani dell'Università statale di Milano. Dante dunque vive – più che nelle aule accademiche – nella diaspora e nel partage delle vie della speranza. È anche questo il suo inesauribile fascino.

Certo va letta come incoraggiante la serie di edizioni e commenti che in Italia (si vedano in questa pagina alcuni dei più significativi apporti recenti) e in Francia sono dedicati al De vulgari eloquentia e alla Vita nova, che completano nei Meridiani il benemerito commento alla Commedia di Anna Maria Chiavacci Leonardi, e in Francia la bella traduzione di Jacqueline Risset (ora riedita con nuova ispirata introduzione). E quando si aggiunga il prezioso repertorio dei commenti on line del Dartmouth Dante Project (Ddp) e delle edizioni Salerno, non si può dire che manchino gli strumenti.

Ultimi di sezione

Shopping24

Dai nostri archivi