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Questo articolo è stato pubblicato il 08 settembre 2011 alle ore 18:06.

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Killer Joe (Ansa)Killer Joe (Ansa)

Ci stavamo leccando le ferite delle polemiche post Comencini day e ci ritroviamo con un grande favorito per il Leone d'Oro - William Friedkin e prende quota tra gli addetti ai lavori anche «L'ultimo terrestre» di Pacinotti - e una bella sorpresa alla Settimana della Critica.
Partiamo con il maestro del miglior cinema americano, che tanti davano per bollito.

Niente di più sbagliato, il (pre)giudizio sballato nasceva dal fatto che le distribuzioni italiane, estremamente miopi, negli ultimi anni l'hanno ignorato. Il suo «Killer Joe» è lo schiaffo irriverente che scuote il festival, una pellicola completa, estrema, grottesca e ovviamente sexy che per molti sbaraglia il campo e si candida a vincere qualche premio importante. Lui se lo augura, e con sfrontatezza dice «Aronofsky? Il mio regista preferito. Potete ovviamente capire perché!», alludendo alla sua carica di presidente di giuria.

Un crescendo entusiasmante e selvaggio quello del grande cineasta, il settantaseienne sembra un esordiente frenetico e ipercreativo. Supera la barriera dei moralismi e degli schemi narrativi e visivi hollywoodiani, stupisce lo spettatore ad ogni passo, fin dal cinismo opportunista della famiglia più disfunzionale forse mai vista sul grande schermo: la matrigna doppiogiochista Gina Gershon, un devastato Thomas Haden Church - la sua recitazione "a specchio" è perfetta -, il solito eccellente Emile Hirsch - antieroe arruffone - e Juno Temple, giovanissima interprete il cui talento è pari solo alla sensualità disturbante che qui, come già in Kaboom di Araki, diventa motore della storia. Gran parte del film poggia sulla capacità del regista di puntare molto sulla sua innocenza che diventa allegra malizia, la scena d'amore con Killer Joe Matthew McConaughey è pazzesca: si vede poco, si capisce tutto, si rimane turbati dalle sensazioni mostrate sullo schermo e da quelle provate dallo spettatore.

L'autore de «L'esorcista», «Il braccio violento della legge» e «Vivere e morire a Los Angeles» qui sembra tirar dentro i tanti modi con cui ha fatto cinema per unirli in una sola imprevedibile folle storia: un ex marito e un figlio che assoldano Joe Cooper il sicario part time (fa il poliziotto come lavoro principale) per far fuori la madre snaturata e incassare la sua assicurazione sulla vita. Ovviamente non sarà così facile. A Cannes tutti inneggiavano a «Drive» e al suo regista Nicholas Winding Refn, geniale e da alcuni definito l'erede di Friedkin. William, però, non ha abdicato e ha anche rimesso la freccia per il controsorpasso: musica, attori, fotografia, sceneggiatura (tanti dialoghi, poca azione pestaggi esclusi), tutto è perfetto.

Missione di pace
Lo è, anche se in un contesto produttivo più piccolo, anche nel sorprendente «Missione di pace». Film italiano selezionato nella Settimana della Critica - fa il paio con il buon Là-Bas-, ha un cast di tutto rispetto: oltre ai protagonisti Silvio Orlando e Francesco Brandi, nella parte del capitano Vinciguerra e del figlio fricchettone e contestatore, troviamo anche la soldatessa Alba Rohrwacher e un Filippo Timi -Che Guevara che non potrete dimenticare facilmente: se Brandi, infatti, sogna il terzo scudetto del Napoli giocando da solo a pallone nel corridoio di Grz, nei sogni El Comandante vuole come ministro dello sport Diego Armando Maradona.

La guerra non è una cosa seria, ma porta conseguenze serie: ce lo mostra con il cotè militare della storia Lagi, il suo film sembra «In viaggio con papà» innestato su «M.A.S.H». Un volenteroso ufficiale ha l'opportunità di catturare un pericoloso criminale da guerra, ma il figlio pacifista, un po' ottuso nelle sue "giuste" convinzioni e portatore sano di battute geniali - la migliore? "Gli Americani non esistono, sono solo un nostro errore di navigazione" - lo perseguita, anche involontariamente, all'estero, dopo aver già bloccato la carriera del genitore con le sue intemperanze radicali, protestando davanti alla sua caserma. Lagi ha poche risorse e le utilizza al meglio: Orlando è una sicurezza, Brandi, finora ottimo caratterista - da «Habemus Papam» a «Generazione 1000 euro» - è una splendida scoperta, un piccolo mattatore. Guizzi di regia non mancano e la storia è fluida e grottesca al punto giusto. Ci si diverte, si riflette e si esce dalla sala con un sorriso. Giovani bravi autori, e attori, crescono.

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