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Questo articolo è stato pubblicato il 11 ottobre 2011 alle ore 14:16.

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Martial Solal. (Foto Afp)Martial Solal. (Foto Afp)

Il pianista e compositore francese Martial Solal ha compiuto nello scorso agosto 84 anni. È uno dei padri del jazz europeo (qualcuno sostiene addirittura il padre), ed è comunque un precursore del jazz come lo si intende oggi, aperto ad ogni influenza fino al punto – talvolta – di negare sé stesso.

Solal continua a tenere concerti, a comporre e a incidere dischi con lo stesso vigore e la stessa fantasia di quando, a 23 anni, si trasferì definitivamente a Parigi dalla nativa Algeri. Ho parlato spesso con lui, perché ha idee molto chiare e le sa esporre con altrettanta chiarezza. Al contrario, la fase attuale della musica afro-americana si presenta piuttosto confusa, e quindi è il momento giusto per un nuovo colloquio. Capisco subito che ha intenzione di raccontarmi la «storia autentica» – così dice – della sua carriera: ma mi va bene lo stesso, in quanto so che coincide più o meno con la storia del jazz moderno europeo. Prima però tento di spiazzarlo con un quesito che ritengo fondamentale e che non gli ho mai posto. Molti pensano che il jazz, musica del Ventesimo secolo, sia finito con il "suo" secolo: altri invece (e mi metto fra questi) ritengono semplicemente che abbia cambiato casa, avendo trovato in Europa il suo principale centro di produzione.

È Solal, invece, che mi sorprende. «No» risponde. «Il jazz è musica americana senza altri aggettivi. È cosa loro. Così sosteneva anche un grande maestro come Lennie Tristano, e mi sono convinto che aveva ragione. Quando sono andato per la prima volta in tour negli Stati Uniti (nel 1963: aveva 36 anni, ndr) il pubblico mi ascoltava con curiosità perché, pur essendo europeo, sapevo suonare "il jazz americano". Lo chiamavano così, la parola e l'aggettivo erano per loro inscindibili, e oggi non è cambiato nulla».

Pronunciate da Solal, queste parole fanno impressione. Mi dò per vinto e gli faccio la domanda che desidera o pressappoco: se, quand'era ragazzino, ha cominciato a suonare il pianoforte pensando al jazz, o se invece era stato avviato allo studio della musica che chiamiamo classica. «Ho cominciato a mettere le mani sulla tastiera a cinque anni per divertirmi, approfittando di un pianoforte che avevamo in casa. A sette anni ho preso le prime lezioni. A quattordici suonavo ancora abbastanza male, ma ho sentito per la prima volta il jazz ed è stata la rivelazione. Trascorsi altri due o tre anni, mi sono detto che non avrei mai fatto del jazz per davvero se non avessi imparato perfettamente la tecnica del pianoforte. Quindi ho continuato a lavorare soltanto per il jazz. Non ho conseguito il diploma, ma ho studiato per tante ore ogni giorno con una specie di frenesia. Ascoltavo soprattutto Fats Waller, Art Tatum e Lionel Hampton. Ricordo un disco di Hampton nel quale i pianisti erano due, lui e un altro, ma io credevo che fosse soltanto Hampton a fare tutte quelle note, e suonavo come un pazzo per riuscirci».

Racconta di aver esordito in pubblico ad Algeri con un pluristrumentista di jazz che prediligeva il clarinetto ed era un buon direttore d'orchestra (non ne dice il nome). Collabora con lui per due o tre anni, poi nel 1950 parte per Parigi mentre il jazz francese è dominato dalla figura del chitarrista gitano Django Reinhardt, approdato ai massimi livelli solistici della musica americana per vie tuttora misteriose.

Reinhardt muore il 16 maggio 1953 a soli 43 anni e Solal fa in tempo a suonare poco con lui. C'è però un episodio importante, quasi simbolico perché sembra il passaggio di un testimone. L'ultima incisione discografica di Django che ha luogo a Parigi l'8 aprile 1953 coincide con la prima di Martial. «Quel giorno – ricorda – il pianista titolare Maurice Vander ebbe un contrattempo e io venni chiamato a sostituirlo. Oltre a Django c'erano Sadi Lallemand vibrafono, Pierre Michelot contrabbasso e Pierre Lamarchand batteria. Registrammo quattro pezzi. Fu la mia unica vera collaborazione con Django e mi riuscì male per l'emozione. Credo che allora mi abbia influenzato perché mi piaceva il suo modo di concludere le frasi melodiche con una nota tenuta e vibrata che mi sembrava stupenda. Ma di lui rammento le cose che più o meno sanno tutti: ad esempio la sua incredibile mancanza di puntualità che una volta gli fece perdere perfino un impegno con Duke Ellington».

Nutro da sempre la convinzione (poco condivisa da altri, data la complessità dello stile di Solal, paragonabile soltanto ad Art Tatum) che il sommo virtuoso che mi parla sia soprattutto un grande improvvisatore e perciò preferisca suonare da solo. Si illumina: «Sì, è vero, e credo che questa sia l'eredità migliore che lascerò al jazz americano (lo dice apposta, ndr). Penso che quando suono da solo sono completamente libero, in duo o in trio sono meno libero, figuriamoci fra i quindici di un'orchestra. Nel jazz mi ha colpito fin dal primo momento la possibilità di fare quello che si vuole, quando si vuole, quando si sente di poter esprimere ciò che si ha in testa. Posso suonare lo stesso brano per molte sere di seguito ma lo faccio ogni volta in modo diverso, e potrei fare così per tutta la vita che mi resta. Due accordi bastano per esprimere un mondo differente ogni giorno. E' questa la bellezza dell'improvvisazione, e quindi del jazz».

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