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Questo articolo è stato pubblicato il 20 novembre 2011 alle ore 13:57.

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Saperi a scaffale aperto (Corbis)Saperi a scaffale aperto (Corbis)

Il paese ha la febbre alta ma nessuno degli speziali che si affannano attorno al malato ha proposto rimedi per il malandato mondo degli istituti della conoscenza. Nel vuoto pneumatico che contraddistingue le politiche per la cultura, si preferisce aspettare che la natura faccia il suo corso e che biblioteche, archivi e musei avvizziscano da sé, quasi fossero un'appendice inutile.

Come giudicare altrimenti i tagli feroci al bilancio delle biblioteche statali, passato da 30 a 17 milioni in cinque anni (2005-2009), o la riduzione del 30 per cento dei bilanci delle biblioteche di ente locale per effetto dei provvedimenti di contenimento della spesa pubblica adottati negli ultimi due anni? O il mancato turn-over degli addetti, col risultato che fra pochissimi anni in biblioteca non resterà quasi più nessuno, visto che ad esempio l'età media dei bibliotecari del ministero per i Beni e le attività culturali (MiBAC) supera i 55 anni?

Non voglio fare difese d'ufficio, che sarebbero piuttosto scontate, ma provare a entrare nel merito con quattro proposte per spiegare perché e come difendere le biblioteche italiane.

Primo: nell'età del post benessere i soldi per le biblioteche saranno sempre meno, perché il taglio alla spesa pubblica non sarà probabilmente mai compensato. Il vaticinio è facile ma non scontato, perché insiste sul paradigma del taglio lineare tanto caro all'ex ministro Tremonti. Si può evocare l'insostenibilità e l'inattualità degli investimenti culturali e invocare l'intervento del privato a surrogare la ritirata dello Stato (come sostenuto da Luca Nannipieri sulle pagine di «Europa», 8 novembre), oppure distinguere fra investimenti produttivi e sprechi, fra incentivi e prebende, fra spese essenziali e non. L'investimento nelle infrastrutture della conoscenza non può che essere annoverato fra quelli essenziali. Il legislatore va incitato ad assumersi responsabilità storiche (come quella nei confronti delle biblioteche scolastiche, autentica perla nera nel panorama mondiale delle nazioni economicamente avanzate) ma soprattutto sferzato quando disattende clamorosamente le attese. È il caso del federalismo fiscale che, se sarà mai approvato nella forma attualmente in discussione, non comprenderà i servizi culturali fra le funzioni fondamentali dei Comuni, notoriamente i principali finanziatori delle attività culturali in Italia. Le biblioteche, per la cronaca, sono il primo servizio culturale per numero fra quelli a titolarità comunale.

Secondo: nel nostro Paese non si è mai sviluppata una narrazione che avesse al centro la biblioteca e il suo ruolo sociale, culturale ed economico, che la rendesse riconoscibile e accettata come avviene nei principali Paesi occidentali. Spiegare quali vantaggi possano recare biblioteche ben funzionanti permetterebbe di dare senso compiuto alla richiesta di continuare a mantenerle e finanziarle. Non si tratta di difendere la biblioteca in quanto tempio dell'alta cultura ma di ricollocarla entro i confini della percezione di utilità sociale. Per fare ciò è necessario inserire il tema nel quadro più ampio delle priorità nazionali, prima fra tutte quella della crescita culturale del Paese, questione che riguarda molto da vicino sia la competitività sia la tenuta democratica della nostra nazione. L'Italia è un Paese afflitto dalla sua modestissima cultura, che rischia di pagare pesantemente il costo della propria ignoranza. Siamo un popolo leader nell'utilizzo di gadget hi-tech, vere e proprie icone della modernità, ma non siamo in grado di capire che è solo un uso competente dell'informazione a poterci sottrarre alla dimensione più deteriore e corriva della rete, quella che ci vuole privi degli strumenti minimi per orientarsi. Le biblioteche possono essere parte di un progetto nazionale teso a garantire alfabetizzazione, formazione e integrazione nello spazio economico e sociale per tutti i cittadini. Questo ruolo nei Paesi anglosassoni è la cifra che caratterizza le public libraries, servizi per il cittadino, non per lo studio o la lettura.

Terzo: la richiesta di attenzione e di risorse deve essere accompagnata dalla ricerca di maggiore efficacia e dall'adozione di modelli organizzativi che superino l'impostazione fondata sull'appartenenza amministrativa e sui compartimenti stagni. Se vogliamo che le biblioteche servano al Paese, dobbiamo dare vita a un moderno sistema bibliotecario nazionale nel quale tutte le componenti operino in base a criteri di funzionalità, autonomia e complementarità, facendo riferimento a un quadro programmatico e a obiettivi concordati e condivisi. In questo modello lo Stato (cioè il MiBAC) dovrà smettere i panni del gestore diretto di 46 biblioteche che attualmente svolge per dare vita alla Biblioteca Nazionale d'Italia, istituto dotato di piena autonomia scientifica, organizzativa, finanziaria e contabile, che avrà per scopo l'erogazione uniforme dei servizi nazionali ai cittadini e alle altre biblioteche e dovrà coordinare funzionalmente l'attività delle due Biblioteche nazionali centrali di Roma e di Firenze, dell'Istituto centrale per i beni sonori e audiovisivi e dell'Istituto centrale per il catalogo unico. Le università devono prevedere statutariamente l'istituzione di sistemi bibliotecari con funzioni di direzione di tutte le articolazioni bibliotecarie d'ateneo, oggi affidate alla responsabilità dei docenti senza un reale coordinamento e con enormi diseconomie, e impegnarsi a promuovere e diffondere l'open access come strategia per un accesso democratico e diffuso alla conoscenza scientifica e ai risultati della ricerca sostenuta con risorse pubbliche. Gli enti locali devono individuare un modello condiviso per il servizio bibliotecario pubblico che lo renda riconoscibile a Nord come nel Meridione e abbracciare la cooperazione come filosofia e come metodo di lavoro, per raggiungere standard di servizio più elevati e contenere i costi.

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