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Questo articolo è stato pubblicato il 05 settembre 2012 alle ore 09:43.

Ci sono firme inconfondibili nel cinema, registi che riconosci, che facciano documentari o film di finzione. Di solito avviene perché sanno prendersi rischi e tentare strade che altri neanche considererebbero praticabili. É il caso di Vincenzo Marra, che a Venezia torna per la sesta volta e per la seconda alle Giornate degli Autori. Dopo L'udienza è aperta, infatti, che qui fu accompagnato anche da un ancora poco conosciuto Saviano, arriva ai Venice Days Il gemello, il racconto partecipato e potente di due uomini a loro modo straordinari.

Domenico Manzi, ispettore capo a Secondigliano, e il detenuto Raffaele Castagliola, detto "Il gemello" (perchè ha due fratelli gemelli), facce diverse di un sistema repressivo che qui sa mostrarsi anche come organo di recupero e riabilitazione. Manzi è uno di quegli eroi normali che l'Italia ama ignorare, uno di quelli che nel suo lavoro- lo si è visto nell'intervista a fine proiezione, nella passione con cui ne parlava- ci mette tutto.

Per lui il detenuto, e non solo Raffaele, non è mai un numero, ma un essere umano da ascoltare, magari da far riflettere, di sicuro con cui confrontarsi. E se pensate al modello del buon samaritano, scordatevelo: la sua professionalità arriva da anni di esperienza e studi, e la vedi dalle chiacchierate con l'altro protagonista ma anche dalle sue modalità di indagine. Raffaele è un uomo molto sveglio, dall'intelligenza viva e l'anima inquieta, con un fascino e un carisma che sembrano fatti per il cinema e che in carcere gli valgono rispetto e attenzione.

Marra, che in quel centro di detenzione ha ottenuto massima libertà- un ossimoro, ma non lo è forse tutto il cinema?- ci mette tutto il suo talento: nell'osservazione della prima parte e nella costruzione del dramma psicologico della seconda, in quella capacità di girare innata e rigorosa, empatica e penetrante, che gli permette di farci sentire i sentimenti e le sensazioni, di farci soffocare da quelle sbarre o dall'ora d'aria in uno spazio troppo ristretto. Il regista si muove con la macchina da presa in modo da restringere lo spazio dei protagonisti e dello spettatore stesso, si e ci concentra su quel rapporto a due che è simbolo e motore di un nuovo modo di considerare le istituzioni carcerarie.

"Ho cercato di filmare la vita- ha detto Marra - cercando come un segugio la drammaturgia e l'anima delle persone e dei luoghi". Ci è riuscito, con una capacità di restituirceli con potenza inaudita, presentandoci la quotidianità di una casa circondariale e stupendoci con l'abbattimento di pregiudizi e stereotipi.

Ma al di là della grande qualità cinematografica dell'opera di Marra, del suo valore civile, forse è la lettera che oggi il regista ha condiviso con il pubblico della Sala Darsena la cosa che più sottolinea l'importanza de Il gemello. La missiva è proprio di Raffaele che, in carcere dall'età di 15 anni, 12 alle spalle e meno della metà davanti per riacquistare la libertà, non ha potuto essere presente. "In carcere ci sono solo sofferenze- ha scritto- e si vive a metà, ma io sono un gladiatore e lotto. E pago per quello che ho fatto, perché è giusto.

Ma ora ho scoperto di essre libero nell'anima e nella mente grazie a te, Vincenzo, amico mio, con l'arte, con il cinema. E per questo spero di poter fare presto un altro film insieme. Grazie a questo tempo insieme mi sono sentito un uomo e non un numero". La lettera, che raggiunge le sei pagine, ha molti momenti toccanti ma di sicuro queste righe ci dicono quanto questo documentario sia stato importante per chi l'ha vissuto e interpretato. "Volevo mostrare cos'è il carcere adesso- ha sottolineato Manzi-, lontano dall'immagine che ne davano i film del passato o la tv". Missione compiuta per tutti. E grazie a un film speciale.

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