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Questo articolo è stato pubblicato il 24 settembre 2012 alle ore 11:26.

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Tifano per una squadra il cui motto è Mes que un club. I sostenitori del Barcellona rivendicano così l'appartenenza a qualcosa di diverso e unico, come a sottolineare fin da subito, dalla stretta di mano, che se la loro è più di una squadra le altre non possono che essere solo squadre o anche qualcosa di meno. Sostenitori, soci, catalani.

Ma anche semplici simpatizzanti sparsi per i cinque continenti, allegri non tifosi che portano in spalla bimbi di 5 anni con la maglia di Messi e il sorriso timido di Iniesta. Il Barcellona di oggi viene da lontano. La stirpe di brevilinei innamorati della palla che ammalia il mondo e cambia le regole del gioco è solo l'ultima generazione di una storia calcisticamente antica, iniziata nel 1899 quando un uomo d'affari protestante, lo svizzero Joan Gamper decise di fondare la squadra insieme ad alcuni espatriati inglesi. Da allora il Barcellona è stato sempre e comunque forzato a essere mes que un club. La bandiera di un nazionalismo liberale, quello catalano. La bandiera di modernità, progresso e sviluppo industriale (catalano, come ovvio) contro la retriva borghesia imperiale castigliana. Lo sfogo morbido e orgoglioso dell'indipendentismo contro la repressione fascista del Generale Franco. Il Barcellona è stato vettore perfetto di sentimenti nobili e ha ispirato la meglio gioventù iberica, ha riformulato negli anni i canoni di stile e bellezza calcistica mutuandoli dagli olandesi ed è diventato lo sbocco obbligatorio del tifo progressista e il passatempo di scrittori e artisti.

Il museo del Barcellona ospita quadri di Dalì e Mirò, si dice addirittura che i suoi colori sociali siano stati mutuati dal tricolore della Rivoluzione francese. Si dice e se non è vero poco importa, è comunque una leggenda metropolitana da alimentare come tutte le agiografie non ufficiali dei sette nani del Barcellona. Come spiega bene Franklin Foer nel brillante saggio How soccer explains the world: «Quando si è orientati verso una politica liberal e un'estetica yuppie, non è facile trovare un angolo del firmamento calcistico in cui sentirsi a casa».
tifo politicamente corretto
E la risposta a tutte le ricerche e le domande, alla sete di correttezza politica che per alcuni (in genere quelli che non guardano le partite) è l'unico requisito necessario al tifo, è solo una. Il Barcellona. La squadra che può privarsi di campioni eccezionali se non li ritiene funzionali al suo stile di gioco, la squadra che non ha gruppi di tifosi organizzati e il cui stadio, il monumentale Camp Nou, è pieno di famiglie e ha uno dei tassi di presenze femminili più alti del mondo. Come si può non amare il Barcellona che porta l'Unicef sulle sue maglie? Come è possibile non innamorarsi di Messi, il campione educato e silenzioso, forse anche timido, che segna gol meravigliosi e vince tutti i trofei individuali dell'universo e li dedica alla squadra?

Si può. Io odio il Barcellona, sempre che l'intensità dell'odio si possa applicare alla più seria e drammatica delle cose poco serie, il calcio. Il Barcellona di Guardiola è la massima espressione del nuovo spirito blaugrana. Un allenatore giovane e intelligente (anche molto presentabile, che non guasta). Un gruppo di giocatori disciplinati, pettinati a modo e incapaci di qualsiasi forma di protagonismo o eccesso, allineati allo spirito disneyano richiesto dal club. Un pubblico che festeggia le vittorie ma non dimentica di celebrare la squadra anche nelle sconfitte, come è accaduto alla fine della sfortunata semifinale di Champions League contro il Chelsea.
Non me ne sono accorto in tempo reale perché come altri milioni di antipatizzanti ero in piedi sul divano, paonazzo e stravolto dalla gioia a celebrare il successo dei brutti, sporchi, ricchi e cattivi del Chelsea di Abramovich, il miliardario dallo sguardo di ghiaccio e il portafoglio senza fondo. Da dove viene quello che uno bravo chiamerebbe Schadenfreunde e uno come me semplifica in odio? Perché tutto questo astio, come si può non amare il Barcellona? Si può e forse per amore del calcio si deve. Non è il passatismo a trasformarci in nemici irriducibili del gioco del Barcellona (che qui non chiameremo mai affettuosamente "Barça"), non la nostalgia della melina né la naturale e molto sana propensione catenacciara di noi gente che non ama il "tiqui taca" e pensa che Manuel Vázquez Montalbán fosse un notevole scrittore e un pessimo osservatore delle cose del calcio.

Il Barcellona è terribilmente noioso, ecco la verità. Il suo gioco lento e avvolgente, la quantità industriale di palloni stoppati, lavorati e giocati dai suoi centrocampisti frenetici è una delle cose più deprimenti della storia del calcio e il fine ultimo della creazione del suo gioco, l'umiliazione dell'avversario ancora più e prima che la sua sconfitta, è aberrante. Il dramma (sportivo, s'intende), è che siamo di fronte a un'onda lunga, di cui vediamo solo i primi effetti. Infatti gli infidi ammaestratori di foche catalani iniziano prestissimo a instillare i principi della noia e della masturbazione del pallone ai loro pulcini.
La Masia del Barcellona, il suo settore giovanile, è l'incubatore perfetto degli errori e degli orrori calcistici celebrati in tutto il mondo come il miracolo della squadra che inventò il calcio moderno. Li vogliono tutti uguali, pettinati allo stesso modo, educati e al servizio del collettivo. Una fabbrica di piccoli mostri impomatati e fungibili, pronti a entrare nello schema. Pochi mesi fa una selezione giovanile romana chiamata Futbolclub fece visita alla Masia per cercare di carpirne i segreti. Furono organizzate quattro partite e i ragazzini italiani presero complessivamente 59 gol per segnarne solo uno.

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