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Questo articolo è stato pubblicato il 18 ottobre 2012 alle ore 07:58.

Obama è contemporaneamente Nobel per la Pace e guerrafondaio. Colui che ha salvato Wall Street ma anche il suo fustigatore. Il presidente che ha ristabilito lo status dell'America nel mondo e quello che vuole gestire il suo inevitabile declino. Quello che si inchina ai leader del mondo e quello che li rimuove o minaccia di rimuoverli. A Obama arrivano strali per non aver chiuso Guantánamo, ma anche perché lo voleva chiudere. Gli arrivano elogi di sinistra e critiche di destra per aver terminato l'era delle tecniche avanzate di interrogatorio dei terroristi dell'era Bush, ma anche critiche di sinistra ed elogi di destra per aver triplicato il numero dei soldati in Afghanistan (2). Sì, Obama ha soddisfatto la sinistra per aver ritirato i soldati dall'Iraq, sia pure secondo il calendario stabilito da Bush e dal governo iracheno, ma l'ha delusa perché ha bombardato un giorno sì e uno no il Pakistan con gli aerei senza pilota, i droni, guidati come un videogame dalle basi militari in Nevada.
Obama aveva promesso un'Amministrazione trasparente e un uso limitato della prerogativa presidenziale di decidere senza il consenso del Congresso, ma i primi quattro anni hanno fatto rimpiangere anche al mondo liberal la franchezza, l'apertura e la disponibilità di Bush. Per cambiare il regime iracheno, Bush ha ottenuto un voto del Congresso, istituzione che peraltro aveva dato il consenso al regime change già ai tempi di Clinton, mentre per cacciare Gheddafi e per autorizzare i 284 bombardamenti sul Pakistan Obama ha fatto tutto da solo (secondo uno studio della New America Foundation, negli anni di Obama sono stati uccisi con i droni tra le 1.503 e le 2.642 persone, soltanto il 2 per cento leader di primo piano, gli altri militanti comuni; e poi tra 474 e 881 civili, di cui 176 bambini). Obama ha pure autorizzato, ed eseguito, l'uccisione di cittadini americani sospettati di terrorismo dalle agenzie di intelligence, una decisione leggermente più irriguardosa rispetto al mega scandalo bushiano sul programma di intercettazione di telefonate tra sospetti terroristi e possibili loro contatti americani. Obama non solo non ha chiuso Guantánamo, ma ha recuperato le Corti speciali militari ideate da Bush, approvate dal Congresso e confermate dalla Corte Suprema e addirittura per un gruppo di combattenti islamisti catturati in Afghanistan ha deciso, formalmente, di procedere alla detenzione infinita e senza processo.
Qualche ragione di lamentela la sinistra che si aspettava un ribaltone delle politiche bushiane ce l'ha, ma la destra che lo accusa di essere un debole contro il terrorismo sconfina nel ridicolo. Obama non è un terzomondista, filo islamico e antiamericano e non è nemmeno un pericoloso guerrafondaio. Resta però il dubbio che nemmeno lui sappia che cosa sia. Obama è uno che costruisce ponti. Lo ha fatto per tutta la vita: tra la cultura del Midwest di sua madre e dei nonni che lo hanno cresciuto e quella africana di suo padre; tra l'élite accademica della costa East e la South Side nera di Chicago; tra il mondo liberal e quello conservatore. Obama ha sempre cercato di occupare un punto di equilibrio tra posizioni divergenti.
Otto anni fa ha entusiasmato la Convention democratica di Boston con un discorso sull'unità nazionale e su quella piattaforma politica è diventato senatore, ha vinto le primarie ed è stato eletto presidente. Aveva convinto gli americani di sinistra e di destra, e quelli di centro. Al primo anno alla Casa Bianca, insistendo sulla riforma sanitaria in un momento di crisi in cui ci si aspettava interventi sul lavoro, ha perso il consenso degli elettori moderati. Al secondo anno, per recuperare, si è spostato al centro sulla guerra al terrorismo, sulla politica fiscale e sui temi sociali e così ha perso l'ala radical della sua coalizione elettorale, senza peraltro riconquistare chi aveva perso l'anno precedente. Al terzo Obama era a terra, quasi senza più speranza di riprendersi. Al quarto si è rialzato: il consenso della sua parte è tornato, grazie alla tenuta dell'economia, alle posizioni sui gay e all'inadeguatezza dei suoi avversari.
L'Obama del 2012 non è più quello capace di costruire ponti, ma l'America è così spaccata a metà che è probabile che le elezioni si decidano mobilitando il numero più alto dei propri elettori, rinunciando a conquistare gli indecisi, gli indipendenti e quelli dell'altro schieramento. Il giornalista Sasha Issenberg va addirittura oltre e, nel saggio The Victory Lab, spiega come i comitati elettorali più all'avanguardia – e quindi certamente quelli di Obama e di Romney – conoscano i propri elettori ancora prima che questi abbiano deciso per chi votare grazie ad algoritmi e analisi dei dati comportamentali. In un Paese con una bassa affluenza alle urne come gli Stati Uniti, oggi le campagne si concentrano principalmente su raffinate tecniche persuasive tenute sotto traccia, fondate sui principi della behavioral psychology (3) e volte a convincere i propri potenziali elettori ad andare a votare.
Obama non è un ideologo, è un pragmatico. La sua formazione politica e ideale è quella del classico liberal della sinistra accademica, ma è un politico accorto e consapevole che la realtà non è quella dei campus universitari e per questo agisce di conseguenza. Mitt Romney non è molto diverso. Non è un ideologo di destra, tutt'altro. Da governatore del Massachusetts ha varato la riforma sanitaria che è stata poi presa a modello da Obama nel 2009. Romney sembra in difficoltà a gestire le sue convinzioni con quelle più estremiste della Right Nation. Ma anche lui è un politico pragmatico, un businessman abituato a prendere decisioni ponderate e mai spericolate come ha documentato in una splendida inchiesta su Time il reporter investigativo e Premio Pulitzer Barton Gellman. La sua fede mormone lo mette nel campo dei conservatori sociali, ma in caso di elezione non sarebbe meno agganciato alla realtà dell'attuale presidente. Già non vuole più abrogare nella sua interezza la riforma sanitaria, del resto ispirata non solo alla sua ma anche a una proposta del centro studi reaganiano Heritage Foundation (4).
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