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Questo articolo è stato pubblicato il 20 novembre 2012 alle ore 08:31.

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Per mettere in moto l'economia e diversificarla sarà necessario che Tripoli promuova l'impresa attraverso programmi pubblici e inverta gli effetti di decenni di politiche clientelari basate sui proventi del petrolio: fra questi effetti c'è la diffusa corruzione e il prevalere fra i giovani di una mentalità assistenzialistica e di una scarsa etica del lavoro. Per affrontare questi problemi, paradossalmente, i nuovi leader libici dovranno intervenire nel mercato con forza nell'immediato, per poi ridurre la presenza dello Stato nell'economia nel lungo periodo. L'esperienza di altri Paesi ricchi di petrolio usciti da una guerra civile, come la Nigeria, dimostra che, se non si interviene con decisione nella fase iniziale per estirpare i modelli clientelari, questi tornano rapidamente a prendere il sopravvento e le vecchie élite cercano di riconsolidare il loro potere.

L'unica via per evitare un'evoluzione di questo tipo è incrementare la trasparenza e il buongoverno ed espandere l'accesso della cittadinanza all'economia.
Fortunatamente le autorità libiche sono consapevoli della necessità di abbandonare l'improduttivo modello di sviluppo precedente e di gestire in modo più efficace i proventi del petrolio. Quando ancora era in corso la guerra civile, il Libya Stabilization Team, una sorta di centro studi della guerriglia con sede a Dubai, aveva concentrato la sua attenzione su una pianificazione economica più accorta. E l'argomento continua a giocare un ruolo determinante nei rapporti della Libia con le istituzioni finanziarie internazionali. Ma il governo dovrà tenere ben dritta la barra, perché è facile dirottare i proventi del petrolio a scopi clientelari.

È nato uno Stato
Per costruire uno Stato e incoraggiare la nascita di un'identità nazionale ci vogliono tempo e capacità di leadership: idee audaci, iniziativa e disponibilità al compromesso. Vale in particolare per la Libia, dove tutte queste cose negli ultimi quarant'anni scarseggiavano alquanto. Gli ambienti accademici e politici in Occidente hanno la tendenza (forse a causa del prolungato predominio nel mondo arabo di cricche di potere e autocrati interessati soltanto al proprio tornaconto) a sottovalutare l'importanza di una leadership di qualità nella regione: anche da questo punto di vista la Libia si è dimostrata un'eccezione e una sorpresa in positivo.

Certo, nei mesi che hanno preceduto il voto il Cnt non è riuscito ad approvare quasi nessuna legge di rilievo e ha messo in atto disposizioni un po' arbitrarie, come la Legge 36 sui beni degli individui legati a Gheddafi, un provvedimento affrettato e politicamente opportunistico, che alla fine è stato necessario emendare. Al momento del trasferimento dei poteri al Congresso il capo del Cnt, Mustafa Abdel Jalil, ha riconosciuto alcuni di questi fallimenti, in particolare l'incapacità di riportare la sicurezza nel Paese. Ma ha anche sottolineato che l'amministrazione transitoria aveva governato in «tempi eccezionali». Ed è per questo che molti libici, anche quelli che dissentono pubblicamente dal Cnt, nutrono un certo rispetto per i risultati che ha conseguito.

I compiti che attendono il governo sono tanto improbi quanto numerosi: garantire ordine e sicurezza, trovare un equilibrio fra potere centrale e potere regionale, espandere e rafforzare lo Stato di diritto, assicurare una transizione equa, rafforzare i diritti umani e incoraggiare un sentimento di identità nazionale fra tutti i libici. Negli sforzi per raggiungere questi obbiettivi la Libia andrà sicuramente incontro a battute d'arresto, che spingeranno anche i più ottimisti a dubitare dei progressi fatti. I recenti attacchi di gruppi islamisti contro santuari sufi, per esempio, sono la dimostrazione che le profonde differenze religiose in Libia continueranno a ostacolare la creazione di una comunità politica armoniosa.

Ma il quadro più generale della transizione giustifica comunque la speranza: dopo soltanto un anno dalla caduta di una dittatura che aveva privato i libici di qualsiasi ruolo politico, uno Stato moderno, contro tutte le aspettative, comincia a emergere.
Se questi progressi continueranno a consolidarsi fino a dar vita a istituzioni solide, la Libia potrebbe diventare l'eccezione alla cosiddetta maledizione delle risorse naturali, quella regola apparentemente immutabile che vede i Paesi esportatori di petrolio condannati ad autoritarismo e stagnazione. Non solo: la Libia potrebbe diventare anche la prova che se si tratta di ricostruire un Paese lacerato dalla guerra, partire da zero è importante.

Nessuno avrebbe potuto prevedere che, prendendo le mosse dalle desolate macerie del regime di Gheddafi e da una sanguinosa guerra civile, la Libia sarebbe stata capace di disegnare un governo efficace e inclusivo, eppure sono sempre più numerosi i segnali che indicano che è proprio quello che sta facendo. Ai leader libici è stata offerta un'occasione che le rivoluzioni vittoriose di solito non hanno: ripartire da capo, con ampia disponibilità di risorse finanziarie e la libertà di costruire uno Stato come meglio si crede.
E intanto che la nuova Libia emerge l'Occidente deve continuare a interpretare un fondamentale ruolo di supporto, più o meno come ha fatto durante la guerra civile. La morte di Stevens non deve dissuadere gli Usa dal lavorare a stretto contatto con Tripoli, perché Stevens stesso era consapevole che solo l'impegno americano poteva garantire alla Libia quelle competenze e quel sostegno indispensabili per consolidare la sua giovane democrazia.

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