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Questo articolo è stato pubblicato il 12 febbraio 2013 alle ore 08:34.

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Avete presente il pezzo letterario firmato da uno scrittore, in cui si raccontano gli scorci della città tentacolare, le permanenze irrazionali, l'atavico dello scaldabagno buttato nel parco, dei vecchi magrolini con l'aria da marchette e degli spacciatori o puttane all'angolo della strada? Io e i miei amici sono anni che ci campiamo. Oggi tocca a me, che faccio il pezzo sul Pigneto.

Avete presente quel genere di pezzo più o meno letterario, diffusissimo di recente sulle riviste di qualità, in cui si racconta il processo di gentrification di una zona di una grande città occidentale – Torino, New York, Berlino – biasimando il culto del lifestyle che porta il capitale a inseguire "l'autentico" di quartieri "con un'anima" per svuotare poi quell'anima dall'interno invadendo con negozi, ristoranti, centri wellness e altre comodità raffinate l'ormai ex borgo/villaggio/borgata, in cui si tengono però, come reperti recintati, per ricordo, due vecchietti al bar? Oggi tocca a me, e il bar di oggi è Necci, luogo della mitologia pasoliniana, con vecchietti tollerati, hipster e radical chic benvenuti.

La signora fa la calza seduta al tavolo all'ingresso, mentre io scrivo un pezzo, mangio lo strudel, ascolto bossanova. Entra una coppia col passeggino e dieci colori diversi addosso perfettamente assortiti. Il bambino è bello, scarmigliato, ha due crosticine attorno alle labbra, un piumino rosso lucido.

Ma non posso scrivere questo pezzo senza rivoltarlo contro l'autore: perché l'autore del pezzo sul Pigneto è un giovane dabbene vestito al grado meno impegnativo e più conformista della moda radical chic: un montgomery nero di Muji, Clarks nere, un maglione nero, dei pantaloni bordeaux un po' strettini col risvolto, capelli arruffati da persona profonda, guance paonazze da figlio viziato. È lui lo scrittore che va in giro per i quartieri a fare sociologia senza averla studiata: sono io.

Prima di smascherarsi, l'eclettico estensore del pezzo sul Pigneto dirà due parole sul quartiere: è un triangolo che va da Porta Maggiore alla ex zona paludosa della Marranella. Arrivando dal Sud ti arrampichi sulle due gambe divaricate della Prenestina e della Casilina per penetrare Roma da Porta Maggiore. Se Porta Maggiore sono le mutande, e Prenestina e Casilina le gambe, il Pigneto è la gonna (e Piazza Vittorio il busto; e la testa di questa donna radical chic vista dal cielo è Santa Maria Maggiore).

«Qui era tutta campagna». All'unità d'Italia, poi, ci hanno costruito senza un piano preciso fabbriche, botteghe, industria varia, e di seguito, durante il fascismo, cooperative di ferrovieri e tranvieri costruiranno case a caso, sempre senza progetto d'insieme, ma carine, villette intorno alla via del Pigneto, che scende a Sud equidistante fra Casilina e Prenestina, e che per un tratto dà sull'isola pedonale, dove oggi c'è il mercato la mattina, lo spaccio tutto il giorno e i ragazzi a spasso la sera. Poi: i bombardamenti aerei del '43 e le riprese di Accattone nel '61, fondamentali perché ora in via Fanfulla da Lodi possiamo mangiare al bar, Necci, ristrutturato, dove andava Lui. È importante. Nel bar ci sono dei grossi poster alle pareti. In uno, Jean-Pierre Léaud tiene in mano il libretto rosso di Mao, e sopra c'è scritto "Necci".

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